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Rilanciare il “dialogo sociale” contro la “Concertazione”

La concertazione altro non è che un peculiare metodo di partecipazione delle Parti Sociali al potere politico dello Stato, mediante un confronto che coinvolge sopratutto i provvedimenti di carattere economico e quelli di natura normativa che incidono sul mercato del lavoro. In Italia questo fenomeno, esistente da sempre, o almeno da quando esistono i sindacati, è stato istituzionalizzato con il cosidetto “Protocollo Giugni” del 1993. Un accordo con un fine ben preciso: regolare la dinamica di crescita dei salari e permettere di centrare il fondamentale obbiettivo dell’ingresso nell’Unione Monetaria Europea, conciliando così esigenze di politica dei redditi con i vincoli di bilancio pubblico. Ma con l’andare del tempo, la concertazione, ha finito con lo svolgere compiti che vanno ben al di là del semplice confronto sui rapporti tra le parti sociali e sul sistema di relazioni industriali. Uno strumento che serviva per migliorare i rapporti socio-economici di un sistema paese in affanosa rincorsa verso un obbiettivo è diventato un grimaldello di ricatto politico a danno del governo di turno. L’uso distorto (ed eccessivo) di un “sistema di dialogo” con una struttura di quel genere ha portato al deprecabile esito di sottrarre quote di legittimazione al governo (eletto dai cittadini) per trasferirle a organi rappresentanti le parti sociali (organi del tutto parziali,  ancorchè costituzionalmente previsti). Tommaso Padoa Schioppa e Cesare Damiano hanno, però, rilanciato questo “modus operandi” e,  dopo aver affermato che la situazione dei conti pubblici “è molto simile a quella del 1993”, hanno chiesto alle parti sociali di recuperare lo spirito del Protocollo Giugni e, in buona sostanza, hanno ammesso di essere pronti a decidere insieme quali debbano essere le prossime mosse economiche dell’esecutivo. A parte la situazione di confusione istituzionale che si crea e tralasciando il fatto che vengono parificati due enti di natura completamente diversa (il governo, espressione di una maggioranza elettorale e il sindacato, espressione di interessi particolari), concentriamoci sugli aspetti maggiormente tecnici. La prima cosa da rilevare, ed è evidente a tutti, è che la situazione economica non è la stessa che c’era nel 1993. Non lo è a livello di conti pubblici, innanzitutto. Non si riuscirebbe a spiegare, altrimenti, una manovra come quella impostata dal ministro dell’Economia, così diversa (per obbiettivi e modulazione) da quelle del primo governo Amato(1992-1993). Ma è la situazione stessa dell’Italia a non essere paragonabile: in 13 anni sono cambiati moltissimi scenari. Il passaggio da una struttra industriale ad una società di servizi ha subito un’accelerazione sensibile, lo stesso dicasi per il processo di integrazione europeo e la conseguente interdipendenza della nostra economia dagli altri mercati. Ma ad essere cambiato è sopratutto l’oggetto del contendere, ossia il mercato del lavoro. Sono state introdotte massiccie dosi di flessibilità in entrata, sono state approntate riforme importanti (parzialmente non applicate), è stato varato un provvedimento epocale come la Legge Biagi ed è,in piccolissima parte, mutato anche il sistema delle relazioni industriali. Non si tratta di cambiamenti epocali, sia chiaro, ma probabilmente siamo di fronte ad una modernizzazione del nostro mercato che viene frenata dalle tante (troppe) spinte conservatrici in questo senso. Una di queste spinte, probabilmente la più incisiva, arriva proprio dalla concertazione. Un sistema vecchio, che non può dare risposte serie ai problemi, nuovissimi, che la globalizzazione ci pone. Occorre cambiare rotta e serve farlo in fretta. Al momento le idee che circolano sono pochissime, tutte retrodatate e tutte poco coraggiose. La politica dei redditi, per quanto virtuosa, è uno strumento inefficiente a contrastare le sfide moderne. Serve una politica che miri all’inclusione sociale e all’aumento della competitività; uno strumento agile e rigoroso. Agile, perchè non deve impantare i processi di riforma nella palude del consenso sindacale; rigoroso perchè deve redistribuire e ridefinire al meglio le responsabilità. Il governo deve fare il governo, il parlamento deve occuparsi delle leggi e il sindacato deve fare il sindacato,conscio del fatto che non rappresenta la maggioranza dei cittadini e che non ha alcuna legittimazione universale. Altrimenti facciano un partito e si candidino a governare. Il confronto tra parti sociali e istituzioni elette non deve diventare un obbiettivo in sè, ma deve essere lo strumento attraverso cui si snoda l’iterazione quotidiana tra le diverse realtà del nostro ordinamento. Quello che serve ora è una procedura largamente usata a livello comunitario, quella del “dialogo sociale”. Uno strumento che richiama il governo alle sue responsabilità, senza per questo escludere le parti sociali dall’iter consultivo. Il dialogo sociale, per come lo si intende in Europa, prevede una fase calendarizzata di discussione dei provvedimenti che il governo intende assumere riguardo il mondo del lavoro. In questa fase, meramente esplicativa e consultiva, le parti e il governo trattano e discutono. Se la discussione risulta infruttuosa (o le parti sociali rifiutano il confronto) il governo può continuare nel suo compito di indirizzo politico, forte dell’investitura popolare e delle prerogative che la Costituzione gli assegna. Qualora, invece, si giunga ad un accordo,questo deve rappresentare la base obbligatoria per la traduzione in legge (o in altro provvedimento concreto). Una volta firmato un protocollo,insomma, è obbligo del governo darne seguito, così come è obbligo delle parti sociali aderenti non opporvisi. E’ uno strumento certamente semplice, di utilizzo immediato e con procedure non complesse che,può, in una fase di transizione come questa, rilanciare l’idea di un paese che sta tentando di modernizzarsi, mettendo all’angolo le prese di posizione ideologica di alcune rappresentanze di categoria. Questa è l’unica via per cambiare davvero senza scompensi e tensioni sociali, è l’unica via per continuare sulla strada di un riformismo serio e de-ideologizzato.

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