Tags

Related Posts

Share This

Diario dal Capolinea/4

Non così un tempo questo Friuli cantato da Turoldo. Terra difficile sì, martoriata anche da invasioni e guerre, da miseria ed emigrazione, eppure terra amante della vita. Tutti hanno potuto toccare con mano questa verità nella tragedia dei terremoti del 1976. Mille morti, moltissimi feriti, centinaia di migliaia di senza tetto, ma un popolo tenacemente aggrappato alla vita. Un popolo abbattuto, ma non disperato, colpito a morte, ma non rassegnato. E il Friuli è tornato a vivere e i friulani hanno saputo trasformare le loro lacrime in sudore di ricostruzione e rinascita. E i paesi sono risorti come per miracolo collettivo. Dovuto a cosa? Alla straordinaria energia prodotta dalle sue radici umane e cristiane, dove il rispetto e la promozione della vita erano al primo posto. Un popolo, quello friulano, che aveva un alto senso della vita e dunque anche un’attenta e rispettosa valutazione della morte. Si nasceva in casa e in casa si voleva morire, circondati dall’amore solidale dei propri cari. A nessuno veniva in mente di abbreviare il tragitto verso la morte. Quella era una «pietà» riservata agli animali. Per gli umani c’era il diuturno addestramento alla sofferenza propria e altrui e alla resistenza. E dinanzi alle più grandi difficoltà si veniva educati alla non rassegnazione alla morte, ma alla perseveranza nell’amore alla vita. Tutt’altro rispetto a questa marcia forzata verso la morte, incontro al nulla. Monsignor Duilio Corgnali, nell’editoriale più bello scritto su questa vicenda.

468 ad