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The Last Freeman in Town

Alla fine non ce l’ha fatta. Charles W. Freeman Jr. ha rinunciato alla carica di presidente del National Intelligence Council, ha ringraziato il capo dell’intelligence Dennis Blair e il presidente Barack Obama che l’avevano scelto, ha sparato un paio di “razzi qassam” contro la «lobby israeliana» che aveva lavorato (duramente) per farlo fuori, ha salutato ed è uscito di scena. La rinuncia di Freeman è soltanto l’ultimo degli ormai innumerevoli scivoloni dell’amministrazione democratica nelle sue prime settimane di vita. Ma questa volta, in ballo, c’era la stessa “anima” della politica estera statunitense prossima ventura, in bilico tra continuità bushista e rigurgiti realisti. Una dicotomia che tutta la biografia di Freeman, in qualche modo, rappresenta perfettamente.

Charles Freeman nasce nel 1943 nel Rhode Island, ma presto si trasferisce alle Bahamas, dove il padre conduce i suoi affari. Torna negli Stati Uniti solo per fare l’università: si laurea a Yale e poi alla scuola di legge di Harvard. Sceglie subito la carriera diplomatica e nel 1965 entra nello United States Foreign Service, che lo spedisce prima in India e poi a Taiwan. Nel 1972, è il capo dei traduttori che assistono il presidente Richard Nixon nel suo storico viaggio nella Cina comunista. Poi torna negli Stati Uniti. Dopo aver ricoperto varie posizioni al Dipartimento di Stato, Freeman viene chiamato a svolgere missioni a Pechino e poi a Bangkok, prima di essere scelto come deputy assistant del segretario di stato per gli affari africani. Nel novembre del 1989 diventa ambasciatore in Arabia Saudita, dove resta fino alla prima Guerra del Golfo, nel 1992. Dal 1992 al 1997 lavora per l’Institute for National Strategic Studies, per lo United States Institute of Peace e per una società privata di Washington che si occupa di organizzare joint venture internazionali. Poi, nel 1997, succede a George McGovern (il candidato democratico sconfitto da Nixon alle presidenziali del 1972) come presidente del Middle East Policy Council.

Ex ambasciatore, analista di spessore, versato nelle lingue (cinese, francese, spagnolo e un pizzico di arabo), Freeman sembrerebbe – a prima vista – una buona scelta per il ruolo di presidente del National Intelligence Council. Ma erano in molti a non pensarla così, soprattutto dopo alcune sue dichiarazioni “giustificazioniste” sull’11 settembre («invece di chiederci cosa abbia causato gli attacchi, gli americani dovrebbero esaminare se stessi») e sul massacro di Piazza Tiananmen («la risposta del Politburo è stata un esempio di eccessiva cautela nei confronti dei manifestanti»). Considerato – a torto o a ragione – un “nemico di Israele”, Freeman non ha mai fatto nulla per eludere questa nomèa. Arrivando a pubblicare il controverso libro “The Israel Lobby and U.S. Foreign Policy”, che nel 2006 gli attirò le “simpatie” dei neocon di destra e di sinistra. Un personaggio troppo chiacchierato, insomma, per resistere ad uno scrutinio serrato come quello a cui è stato sottoposto. E che ha portato all’ennesimo flop nelle nomine di Obama.

(domani su Liberal quotidiano)

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