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Eravamo quelli là

Due dicembre 2006, ore 17.16: Silvio Berlusconi sale sul palco di una piazza San Giovanni piena di bandiere di Forza Italia, Alleanza Nazionale e Lega Nord. Una piazza riempita da un numero impressionante di persone e da un tasso altrettanto impressionante di entusiasmo. E’ il Popolo della Libertà, diranno i posteri. Al di là delle enfasi del momento, era il centrodestra unito che scendeva in piazza e non era poco. C’erano tutte le anime di quella che è stata Forza Italia, c’erano le correnti di An, c’era la Lega col suo carico di folklore e di messaggi spicci. C’era quello che per anni avevamo inseguito, il sogno fusionista di un grande partito di centrodestra capace di catalizzare, sintetizzare, dare voce alla maggioranza silenziosa degli italiani. Poi c’erano Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini, sul palco, uniti. Con il Cav che spiegava alla piazza come “le questioni personali non c’entrano, siamo tutti insieme una grande leadership” e l’altro che rincarava la dose: “nessuna invidia può dividere quel che la piazza ha unito” . Tre anni dopo siamo qui a leccarci le ferite di un centrodestra che non ha saputo, oggettivamente, andare oltre quegli slogan. Ritornati al governo del paese, più per i demeriti di una sinistra allo sbando che per meriti nostri, non siamo riusciti ad imprimere  l’accelerata necessaria all’Italia per uscire dalle secche. C’è stata (e c’è) la crisi, ma c’è stato (e c’è) un governo che non ha avuto il coraggio di osare per le cose in cui crede il suo elettorato: l’abbassamento delle tasse, l’allegerimento della burocrazia, il taglio della spesa pubblica. Se il dato amministrativo non è dei migliori, quello politico è pure peggio. E’ nato il Pdl ma non è mai cresciuto. Il partito ha replicato al suo interno i difetti tipici del nostro paese: tutto ruota intorno a Berlusconi, tutti divisi tra i filo-premier e quelli che, sotto sotto, non lo reggono più. Lungi dal volerci schierare in questa battaglia che è solo e soltanto di potere e poco o nulla di contenuti non possiamo non far notare che, dal coordinatore del più piccolo comune italiano fino al presidente, tutti sono nominati, nessuno è eletto. Un movimento che si chiude a riccio sulla sua sedicente classe dirigente, che ha perso ogni contatto con il mondo reale, che mortifica ogni giorno di più la militanza e il merito democratico è un partito destinato a morire lacerato dalle guerriglie interne per questa o quella poltrona. La diatriba Fini – Berlusconi e il continuo punzecchiarsi dei colonnelli altro non sono che la cartina tornasole di un modello leaderistico che non funziona in assenza di legittimazione. Fini, e con lui i tanti peones pidiellini, parlano da mesi di leadership da rinnovare e ancora non siamo in grado di dire a nome di chi parlino, che percentuale di partito rappresentino, dove stia la maggioranza. Noi quel giorno ci abbiamo creduto: abbiamo sperato in un partito “americano”, in grado di darsi regole democratiche condivise, primarie per scegliere i candidati, una classe parlamentare eletta e, magari, una classe dirigente in grado di interpretare davvero il cambiamento. Invece ci siamo ritrovati tra le mani un giocattolo già rotto e già vecchio: parlamentari nominati da questo o quel presunto leader, una schiera indistinta di signorsì e un tasso di democrazia interna vicinissimo allo zero. A questo, si aggiunga l’agonia di un’alleanza, quella tra Fini e Berlusconi, ormai alla frutta. Eppure noi siamo convinti che un centrodestra in questo paese sia necessario: antistatalista, liberale, conservatore e autenticamente ancorato ai valori democratici. Noi siamo ancora quelli là.  Ad essere cambiati, in questi tre anni, sono Berlusconi e Fini, che finiranno per trasformare un progetto politico ambizioso in una lite condominiale.

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