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Figli di tanto padre
Per chi, come il sottoscritto, è nato negli anni ’70, Ronald Wilson Reagan non sarà mai “solo” il 40° presidente degli Stati Uniti d’America, colui che, senza sparare un solo colpo, ha fatto crollare quel blocco sovietico che, armato fino ai denti di armi nucleari, teneva l’intero Occidente a venti minuti dall’apocalisse da almeno vent’anni. Ronald Reagan è e rimarrà sempre il padre spirituale e politico di chiunque non si sia fatto contagiare dalla melassa del pensiero unico sinistro e continua a sognare un futuro migliore, più libero, dove ad ogni individuo sia concesso sognare di avere successo senza subire l’inquisizione fiscale o la riprovazione collettivista di chi pretende di campare alle spalle degli altri.
Ronald Reagan, indissolubilmente legato alla madre spirituale e politica di tutti i ragazzi degli anni ’80, la monumentale Margaret Thatcher, rappresenta l’Alfa e l’Omega dell’universo liberal-conservatore nel quale siamo tutti cresciuti. Il suo volto sereno, il suo sorriso smagliante, da attore consumato, la sua retorica chiara, pulita, efficace, diretta, che poi avremmo scoperto essere opera di gente del calibro di Ann Althouse, tutto ci riporta a quei giorni gloriosi, nei quali tutto sembrava veramente possibile, lontani mille miglia dall’opprimente cappa di pessimismo cosmico che aveva inglobato l’Occidente nei disgraziatissimi anni ’70. Per noi, che stavamo appena uscendo dall’infanzia, Ronald Reagan e Margaret Thatcher erano semplicemente papà e mamma, le due uniche figure di riferimento in un panorama affollato di pigmei, grigi burocrati, tecnocrati dai capelli lunghi e grisaglie semoventi dorotee.
Se mamma Maggie è sempre stata l’incarnazione dell’Inghilterra churchilliana, una sorta di Marianna guerriera che saliva sui carri armati con tanto di vezzoso foulard e si presentava ai meeting internazionali con borsette e vestiti lontani anni luce dagli stilemi dell’epoca, tutti fatti di tailleurs dalle spalline enormi, papà Reagan era la presenza rassicurante, colui che, guidato da chissà quale illuminazione divina, sembrava saper sempre distinguere tra giusto e sbagliato. La sua visione del mondo era tanto distante dal grigiore dominante nella satolla Europa continentale. Niente sfumature, niente equivalenze morali. C’era il bianco ed il nero. C’era la “shining city on the hill” da una parte e l’Impero del Male dall’altra. Papà Ronnie era l’uomo-uomo, il John Wayne della politica, colui che sulla scrivania aveva una targa con scritte quattro lapidarie parole che indicava ogni qual volta un collaboratore accampava ragioni su ragioni per distoglierlo da quegli obiettivi che si era posto. Le parole sono incise a fuoco nell’anima di molti di noi. It CAN be done. Si può fare. Basta con le menate assurde, i sofismi da azzeccagarbugli. Se è giusto in teoria, lo è anche in pratica. Trova il modo e fallo. Semplice, chiaro, diretto al punto, proprio come papà Ronnie.
Le immagini che tornano alla memoria sono quelle del “morning in America”, di Alex P. Keaton alla televisione con il “Wall Street Journal” e la ventiquattr’ore, il dolore lancinante provato vedendo il “Challenger” scomparire in una palla di fuoco nel freddo cielo della Florida ma anche la cerimonia inaugurale delle Olimpiadi di Los Angeles, con l’uomo jet che planava sul Rose Bowl, Don Johnson col Testarossa sulle strade di Miami, Tom Cruise e Rebecca de Mornay in “Risky Business”, Gordon Gekko che non riusciva a restarci antipatico nonostante i disperati tentativi di Douglas e Stone. Ronald Reagan è e sarà per sempre legato a filo triplo alla nostra adolescenza, a quegli anni formidabili che videro rifiorire lo spirito e l’anima dell’Occidente, assestando la mazzata finale all’incubo fatto sistema che opprimeva senza pietà centinaia di milioni di individui oltre la Cortina di Ferro.
Ecco perché, quando pensiamo a Ronald Wilson Reagan, siamo pronti a perdonargli quasi tutto. Perché papà Ronnie non era certo perfetto. Scoprirlo mentre crescevamo è stato quantomai doloroso, ma fa parte di quel faticoso cammino di maturazione che molti, specialmente a sinistra, si rifiutano ostinatamente di intraprendere. Il presidente Reagan si è portato dietro un grosso fardello di errori politici, economici e strategici che ancora oggi perseguitano gli Stati Uniti, ha demolito il dogma del pareggio di bilancio nel GOP, introducendo nel partito il virus dello statalismo “compassionevole” che poi ha prodotto i tanti ‘porkmeister’ e lo stesso George Walker Bush. Si dice che Reagan realizzò la ricetta di Barry Goldwater a metà: tagliò le tasse ma lasciò invariata la spesa, producendo un enorme buco di bilancio. Magari. Il presidente Reagan tagliò le tasse subito, ma riformò il codice fiscale e la Social Security pochi anni dopo, dando il via a meccanismi degenerativi che, nel lungo periodo, avrebbero corrotto le fondamenta della potenza statunitense. Sotto il suo sguardo, le grandi aziende e gli enti locali conclusero accordi scellerati con i sindacati, concedendo quelle coperture pensionistiche e sanitarie mostruose che hanno mandato in bancarotta GM e Chrysler e che, di qui a non molto, trascineranno nel baratro città ed interi stati.
Allora il nostro affetto nei confronti di questo ex-democratico innamorato fino alla fine del New Deal e della figura di Franklin Delano Roosevelt, che si è fatto le ossa politicamente come sindacalista è solo dovuto alla nostalgia per anni certo più felici, nei quali pensavamo tutti di avere di fronte un futuro splendido, dai toni e dai colori hollywoodiani? Non proprio. Ronald Wilson Reagan ci ha insegnato molto di più di quanto molti di noi non vogliano ammettere. È a lui e alla sua fede incrollabile nell’individuo e nell’America che dobbiamo l’orientamento primigenio di quella bussola morale interiore che guida le azioni di molti di noi. È a lui e al suo contagioso entusiasmo, all’ottimismo che sembrava superare qualsiasi razionalizzazione accademica che dobbiamo la tenacia e quel “can-do spirit” che anima molti di noi giorno dopo giorno, aiutandoci a tirare avanti in un mondo che, allora, non avremmo mai immaginato così prostrato e dilapidato. È a lui e alle sue fulminanti battute che dobbiamo quell’amore sconfinato per l’America che solo lui sembrava in grado di mostrarci per quella che è sempre stata.
Mi piace pensare che, come si dice in inglese, ognuno di noi si muove nel mondo della politica e del lavoro in piedi sulle spalle di giganti. Certo è solo una figura retorica, ma sapere che, quando avrò un momento di debolezza, potrò sempre attingere allo spirito indomito ed ispirarmi alla rettitudine morale granitica del Gipper, riesce quasi sempre a rincuorarmi. Ecco perché, anche a tanti anni di distanza, sono orgoglioso di definirmi figlio politico e spirituale di Ronald Wilson Reagan. Proprio come in quel lontano 28 gennaio del 1986, papà Ronnie sarà sempre al nostro fianco, pronto a dirci che, qualunque sia la tragedia che ci colpirà, “nothing ends here; our hopes and our journeys continue”. Ronald Wilson Reagan ci ha onorato vivendo una vita esemplare. Non lo dimenticheremo mai, come non dimenticheremo l’ultima volta che l’abbiamo visto, sul prato della Casa Bianca, con l’amata Nancy a fianco, che salutava tutti salendo sul Marines One, mentre si preparava per il lungo calvario che l’avrebbe portato a sfuggire ai vincoli terreni per andare a toccare finalmente il volto di Dio. A noi l’onere e la responsabilità di onorare la sua memoria e dimostrare coi fatti che il suo cammino terreno continuerà ancora a lungo a dare frutti copiosi.