Primarie per tutti
Perdere, ogni tanto, può anche essere salutare. La lunga lista di vittorie di cui il trio Verdini-La Russa-Bondi menava vanto in questi mesi è stata la causa principale della sconfitta di questa tornata amministrativa. Tutti presi a bearsi della splendida capacità risolutiva del Presidente del Consiglio, ci si è dimenticati che dietro il Cav. cresceva lento e inesorabile un vuoto pneumatico spinto che avrebbe finito come ha finito per soffocare anche quel poco di buono che il centrodestra nazionale poteva lasciare ai posteri.
Se qualcuno non disturba (svegliandolo) il manovratore corriamo il serio rischio di schiantarci ad alta velocità contro il muro del buonsenso italico, che continua con splendida puntualità a punire i politici incapaci, fanfaroni e contaballe. Che poi finisca per premiarne di uguali o peggiori, è un altro paio di maniche che merita separata e approfondita analisi.
Che fare, quindi, di questo centrodestra? Al macero non si può buttare tutto e il tentativo di preservare il buono di questi anni è sforzo necessario, anche se non viene proprio naturale. L’intuizione di creare un blocco moderato, contrapposto a un blocco socialdemocratico, l’idea di due grossi partiti che aggregano e guidano le rispettive coalizioni, la velleità del 1994 e gli slogan su rinnovamento, rivoluzione liberale, democrazia dell’alternanza e meritocrazia sono germogli che andavano coltivati con maggiore impegno perché potessero garantire nel lungo periodo un qualche risultato degno di tal nome.
Invece no: si è preferita la scorciatoia di un partito modellato ad immagine e somiglianza del Premier, eppure nemmeno lontanamente simile al Berlusconi del 1994. Un’accozzaglia indistinta di amici, amici di amici, nominati e scelti a caso che ha finito per mortificare e marginalizzare quelle poche intelligenze che potevano garantire un minimo di futuro al paese e al movimento.
L’eredità più pesante di questo lento processo postdemocratico è proprio qui, nell’idea che la classe dirigente venga discussa a tavolino, costruita col bilancino delle correnti e dei pesi di singoli pretoriani, senza un minimo di legame con il territorio, con la forza delle proprie idee, con il coraggio scomodo di chi ricorda ogni giorno che passa il principio semplice e determinante di “una testa un voto”. Questo modello di partito (copiato poi da Di Pietro, da Bossi, da Fini, da Casini, da tutti quelli che sono Berlusconi ma solo un po’ più in piccolo) ha generato un movimento fatto di gerarchie scelte dai salotti nemmeno tanto buoni della politica politicante e ha compresso, ridimensionato, insultato le tante spinte genuine al cambiamento che attraversano il paese.
Quanti giovani pronti a mettersi in gioco sono scappati in questi anni per far posto a soubrette, ex qualcosa, avvocati di Tizio o fiduciari di Caio? Quanti liberali hanno scelto l’esilio del non-voto della non-partecipazione perché impossibilitati a competere con statalisti per tradizione o per nuova conversione? Dove sono i liberisti e i loro animal spirits? Dov’è finito il popolo delle partite iva, vero motore immobile della vittoria del 2001 e della rimonta del 2006? Non stanno a sinistra, certo, ma non accettano nemmeno di stare in un partito che considera le loro istanze anti-stataliste pari (quando va bene) a quelle della destra sociale, senza nemmeno sentire il bisogno di pesarne la consistenza.
C’è solo una risposta a tutto questo. E si chiama democrazia. In politica si traduce in congressi, primarie, scelte tra uomini e idee. E’ l’unica soluzione possibile e va portata avanti con decisione, prima che sia troppo tardi. A chi oggi gode di una rendita di posizione derivante da una nomina, bisogna chiedere un atto di responsabilità: coordinatori nazionali, provinciali e comunali delle città capoluogo di provincia scelgano di misurarsi e di misurare il loro consenso in elezioni primarie aperte a quel Popolo che, con tanta enfasi, richiamiamo nel nome ma che ci scordiamo puntualmente di considerare.