Unwanted

Inizio a perdere il conto dei commentatori e dei pundit repubblicani (e pararepubblicani) che mettono in guardia il mondo conservatore dalla tragedia incombente rappresentata da una possibile vittoria di Newt Gingrich alle primarie del GOP. E non si tratta di una categoria specifica o di un particolare brand di repubblicanesimo. Qui si va da Ann Coulter a George F. Will, da Mark Levin alla direzione della National Review (che ne approfitta per dare un “colpetto” anche a Rick Perry), dal Washington Examiner a Charles Krauthammer, da Hugh Hewitt a David Brooks.

Moderati, conservatori, estremisti, fiscal conservatives e rockfeller republicans: Tutti, ma proprio tutti, sono terrorizzati dalla prospettiva di una vittoria di Gingrich alle primarie. E tutti (a parte qualche rarissima eccezione) utilizzano toni da catastrofe biblica. Ora, da queste parti siamo coscienti dei limiti e degli eccessi che hanno caratterizzato la carriera politica dell’ex Speaker della Camera. Ma da qui a farne una macchietta, in perfetto stile da disinformatija liberal, ce ne passa.

Non è un mistero che il board della National Review preferisca – proprio come nel 2004 – vedere Mitt Romney uscire vittorioso dallo scontro in corso nel GOP. E’ una presa di posizione legittima, anche se sembra farsi beffe della tenace volontà “anti-Romney” dell’elettorato repubblicano. Ma che la gloriosa rivista fondata da William F. Buckley Jr. nel 1955 si riduca, come fa oggi, a “restringere il campo delle possibili opzioni” al terzetto Romney-Santorum-Huntsman è semplicemente ridicolo. Newt sarà pure un repubblicano atipico e poco appeal nei confronti degli “indipendenti”, ma preferirgli un RINO creato dai mainstream media come Huntsman o un personaggio come Santorum – capace, nel 2006 in Pennsylvania, di diventare il senatore incumbent sconfitto con il margine più pesante di tutta la storia politica degli Stati Uniti d’America (59-41 contro il democratico Bob Casey) – ecco, questo è davvero troppo.

Gingrich ha mille difetti e ha compiuto miriadi di errori nella sua vita politica e privata, ma resta una delle menti più brillanti partorite dal GOP negli ultimi decenni, un big thinker in grado di mettere in difficoltà Obama in un dibattito anche da bendato e su un piede solo e, soprattutto, l’artefice primario di una delle più straordinarie vittorie politiche e culturali conquistate dalla destra americana dopo la doppia elezione di Ronald Reagan alla Casa Bianca.

Ora la base repubblicana si trova davanti a un bivio. Abbeverarsi ciecamente alla fonte delle proprie élite, le stesse che le hanno regalato le fantasmagoriche candidature di due “moderati” come Bob Dole e John McCain, le stesse che hanno praticamente distrutto due ottime, potenziali alternative come Rick Perry e Herman Cain. Oppure seguire, per una volta, il proprio istinto. E affidarsi ad un leader tanto odiato quanto temuto. Per perdere contro Obama, magari, ma senza rinunciare alla propria spina dorsale. Il momento di fare una scelta è vicino.

UPDATE. Meno male che Rudy c’è.

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