Tags
Related Posts
Share This
O di qua, o di là
Tra le pieghe del rapporto Gallup sul job approval di Barack Obama nel 2011, c’è un numero di cui si è parlato poco, ma che descrive piuttosto fedelmente lo stato attuale del sistema politico statunitense. Si tratta, come ha sottolineato qualche giorno fa Jay Cost sul sito del Weekly Standard, del cosiddetto “party gap”: la differenza tra la percentuale di democratici e quella di repubblicani che approvano l’operato del presidente. Il “party gap” è un indice molto concreto del grado di polarizzazione del sistema politico. E nel caso di Obama, nel 2011, questo dato ha raggiunto il 68%. Di fronte all’80% di democratici che danno un giudizio positivo di Obama, infatti, appena 12 repubblicani su cento esprimono lo stesso giudizio.
Non si tratta di un record, visto che nel 2008 si è addirittura toccato quota 80% (89% di democratici e 9% di repubblicani). E non si tratta neppure di qualcosa che riguarda solo Obama, visto che il “party gap” di George W. Bush, nel 2004, era addirittura dell’82%. E’ invece una tendenza relativamente recente, che ha colpito – in misure diverse – anche presidenze più “in salute” come quelle di Ronald Reagan (67% nel 1984) e Bill Clinton (71% nel 1996).
Jay Cost prova a dare una spiegazione storica del fenomeno, attribuendone le cause ai processi di trasformazione delle “coalizioni elettorali” che sostengono i due maggiori partiti nazionali. Dalla Guerra Civile alla Grande Depressione, repubblicani e democratici possono contare su “coalizioni strettamente regionali costruite non su grandi divisioni ideologiche, ma su vecchie antipatie risalenti al campo di battaglia”. I democratici vincono nel Sud e nelle grandi città del Nord. I repubblicani in tutto il resto degli Stati Uniti. Questa divisione consente a “conservatori” e “progressisti” di trovare spazio quasi uniformemente in entrambi i partiti: “Nei tumultuosi primi anni del ventesimo secolo, nella coalizione democratica coesistono conservatori come Tammany Hall e radicali borderline come William Jennings Bryan; i repubblicani hanno Nelson Aldrich, il machine boss di Rhode Island e Robert La Follette, il leader dei progressisti in Wisconsin”.
Tutto inizia a cambiare negli anni Trenta, quando Franklin Delano Roosevelt lavora, con successo, per costruire intorno al partito democratico una coalizione progressista. Neppure FDR, però, riesce a portare a termine l’allineamento ideologico del partito: repubblicani-liberal come Nelson Rockfeller e democratici-conservatori come Richard Russell continuano spesso a caratterizzare un bipartitismo che pure sta lentamente trasformandosi, spostando lo “scontro” da quello tra Nord e Sud a quello tra liberal e conservatori. Il doppio mandato di Reagan accelera questa transizione, ma fino al ventunesimo secolo non si arriva ai picchi di polarizzazione dell’epoca Bush-Obama.
Ci sono molte spiegazioni possibili per questa crescente lacerazione del sistema politico. L’articolo di Cost accenna a scenari sempre più incerti – sia in politica estera che in politica economica – che costringono spesso i partiti a schierarsi “o di qua o di là”. Si potrebbe anche aggiungere che l’emergere dei nuovi media (e la progressiva perdita del potere di intermediazione dei media tradizionali) ha reso più semplice l’emergere di posizioni nette e di opzioni politiche non votate al compromesso. In ogni caso, chiosa Cost, la polarizzazione “is probably the new normal”. Sono finiti i tempi del “guns, butter and low taxes”: oggi i partiti non possono più permettersi di promuovere politiche di espansione della spesa, domestica e militare, promettendo simultaneamente di ridurre le tasse e mantenere il deficit sotto controllo.
Negli Stati Uniti (ma un ragionamento simile potrebbe essere fatto anche al di qua dell’oceano), è sempre di più il momento di scegliere. Espandere il welfare state o ridurre le tasse. Aumentare la spesa o limitare il budget. O di qua, o di là. Non è necessariamente una brutta cosa.