Chasing Andrew
La storia l’abbiamo già raccontata. Ma siccome nessun riassunto può rendere giustizia all’originale, pubblichiamo ora la traduzione (a cura di Irene Selbmann) dell’articolo scritto di getto da Daniel Knauf dopo la morte di Andrew Breitbart. Dopo averlo letto, registratevi al progetto sperimentale di BxxWeb. Per voi si tratta solo di inserire una mail e essere invitati a un’anteprima web. Per Daniel, se avrà successo, rappresenterà invece il lasciapassare fuori dallo Stalag hollywodiano. In bocca al lupo.
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Nel 2000 mi è successo qualcosa di strabiliante.
Di giorno gestivo una società di intermediazione assicurativa, preparavo e perfezionavo piani di cure dentistiche e per le invalidità per un pacchetto di società che operavano sia nel pubblico sia nel privato, dai 5 ai 5000 impiegati. Fuori dell’orario di lavoro, scrivevo sceneggiature.
Per essere un hobby, mi andava bene. Avevo venduto un paio di script e nel 1992 me ne avevo persino prodotto uno, Blind Justice. Come disse una volta il mio buffo fratello Paul, “Non male. Nessuno mi ha mai pagato un centesimo per giocare a golf”. (Ora, per darvi un’idea di quanto Paul sia buffo, dovete immaginarvelo quando parla come Robert Wagner nel momento di massimo splendore, ma un’ottava sotto).
Quando ho iniziato a scrivere mi ero ripromesso che se entro i 40 anni non avessi raggiunto un certo successo scrivendo sceneggiature, avrei smesso e provato un’altra strada. La narrativa forse. Dopo tutto chiunque sa che lo show business è roba da giovani e nessuno (a parte forse Charles Durning) ci può entrare dopo i 40.
Ad ogni modo, il fronte della scrittura si stava facendo un po’ arido, io mi avvicinavo ai 40 e così la mia promessa di piantarla e appendere gli strumenti al chiodo passava da un “ma sì posso smettere quando voglio” a un “beh devo ammettere che ho davvero fallito”.
Ecco, c’è qualcosa che dovete sapere di noi Knaufs. Perdere ci brucia. Se perdiamo diventiamo come quei tennisti che fracassano la racchetta per terra dopo un incontro andato male. Siamo perdenti del tipo fanculo-tu-e-il-tuo-stupido-hotel-sul-lungomare-ti-rovescio-questa-fotutta-scacchiera-addosso.
Oppure, come dice mio fratello Paul, “Mostrami un bravo perdente e ti mostrerò un perdente”.
In ogni caso, decisi di concedermi una pausa. Sebbene negli ultimi dieci anni avessi passato letteralmente migliaia di ore ad affinare le mie opere, non avevo dedicato neanche dieci minuti a venderle. Piuttosto che gettare la spugna, decisi di darmi un’ultima chance. Decisi di creare un sito web dove postare i primi atti di tutte le mie creature invendute: una specie di stanza di compensazione per bozze di sceneggiature.
Al momento di dargli un nome, scelsi “unmovies.com”. Dopo tutto il mio lavoro era composto in gran parte di “film mai nati”.
Veniamo al dunque: caricai gli script e dopo circa un anno incontrai un giovane produttore, Robert Keghobad, per discutere lo sviluppo di Carnivale, nuovo progetto televisivo per il suo capo, il regista (nonché personaggio strardinario) Scott Winant.
Ero ufficialmente in ballo.
Dovrei dire subito che quando iniziai la mia Grand Hollywood Adventure ero piuttosto di sinistra sui temi sociali, moderatamente conservatore sulle tasse, orgogliosamente indipendente, sospettoso nei confronti di ogni ideologia. Ero, insomma, abbastanza apartitico, incline a dare il mio voto a chiunque pensassi fosse meglio per il mio amato paese (o almeno facesse meno danni).
Fossi nato una generazione prima, mi sarei descritto come un democratico kennediano. Quindi suppongo che oggi la definizione “libertarian” potrebbe essere calzante, ma ho sempre nutrito un sano sospetto per qualsiasi cosa che puzzasse di “ideologia”.
Detto ciò, ero piuttosto apolitico. Il massimo che abbia mai fatto per avvicinarmi alla politica è stato farmi un paio di risate con i libri di P.J. O’Rourke. E poi mi era persino piaciuto il primo film di Michael Moore, Roger and Me. Politicamente sono sempre stato il classico paraculo, quello che si siede in fondo alla classe, dove può sfottere le suore senza prendersi troppe bacchettate sulle mani.
L’11 settembre 2001 cambiò tutto.
Ricordo di aver guardato il crollo della prima torre e di aver sentito – proprio letteralmente sentito – il respiro abbandonare i miei polmoni, la sensazione terribile al petto di un nulla spettrale; come di urla distanti in una terra desolata spazzata via dal vento e vuoto, vuoto, vuoto… Dio mio tutta quella gente, tutta quella gente, hanno ucciso migliaia di persone…
Era trascorso solo qualche secondo, ma a me sembrarono minuti, tanti, lunghi minuti prima di poter respirare ancora. Chiesi scusa, con calma, e mi diressi velocemente in camera mia, per risparmiare ai miei bambini il ricordo di aver visto il loro papà crollare disperatamente in una serie di singhiozzi terrorizzati, addolorati, lancinanti.
Non appena mi ricomposi, tornai dalla mia famiglia. Non ho alcuna memoria delle ore che seguirono, solo che con mia moglie decidemmo che sarebbe stato meglio per me andare a lavoro, che avremmo provato a tenere calmi i bambini mantenendo la nostra ordinaria routine. Solo Dio sapeva cosa ci aspettava…
Stavo lavorando alla mia prima serie tv, Wolf Lake, come staff writer, mentre Carnivale era in produzione alla HBO.
Come ogni americano, quella mattina ho salutato i miei colleghi sotto shock. In tutti gli uffici c’erano tv portatili sintonizzate sulle notizie. Durante i giorni che seguirono l’attacco, come ogni americano, ho ascoltato i miei colleghi sfogarsi e lamentarsi.
Ma a differenza degli altri americani, i miei colleghi esprimevano poca rabbia, se non nessuna rabbia, verso i terroristi che avevano commesso questa atrocità. Piuttosto, il loro livore era diretto verso l’imperialismo americano, la politica estera americana, l’arroganza americana, i guerrafondai americani, il razzismo americano e, soprattutto, il nostro Presidente americano, il malvagio ed enormemente stupido, idio-cristiano, zotico texano impedito, George W. Bush.
E cosa ho detto?
Niente.
Non una dannata parola.
Ero scioccato e in silenzio. Non potevo credere a quello che sentivo. Erano tutti impazziti?
Ad un certo punto una mia collega, una degli autori, deve aver notato che non stavo esprimendo la mia obbligatoria razione quotidiana di odio verso Bush e si è rivolta a me come un fanatico Domenicano nel periodo più florido dell’Inquisizione spagnola.
“Beh cosa ne pensi?”, sibilò con occhi scrutatori, studiandomi, come accertandosi che non ci fosse nessuna possibile variazione dall’ideologia accettata, “Cosa faresti se fossi tu il Presidente?”.
“Se fossi il Presidente, terrei un discorso davanti ad una sessione congiunta al Congresso, chiedendo che Bin Laden sia consegnato nel giro di 48 ore davanti agli scalini della Casa Bianca: vivo, morto, o anche semplicemente la sua testa di cazzo in un sacco di iuta, non mi interessa. Se così non accadesse, allora suggerisco a tutti voi stronzi di Kabul di spalmarvi di crema solare a schermo totale, indossare un bel paio di occhiali protettivi e dare uno sguardo verso est, perché vi spareremo addosso qualcosa come 400 chilotoni di roba, tanto per dire. Ed è lì che sorgerà il sole – lì, proprio ad est della vostra capitale, in quel pezzo di terra disabitata di merda che chiamate nazione. Diciamo che sarà un assaggio, ok? Perché se passeranno altre 24 ore dopo il primo missile e non starò ancora chiacchierando amabilmente con la testa del vostro campione dentro l’Ufficio Ovale, ne spareremo un altro, e stavolta sarà programmato per esplodere… diciamo a 200 metri dal centro di quella tana per topi che chiamate capitale. E questo è il motivo per cui sono molto, molto felice di non esser il Presidente, perché sono incazzato nero alla massima potenza”
In effetti non ho detto questo. Cioè, non esattamente.
Quello che ho detto dopo aver temporeggiato, esitato e aver distolto lo sguardo, fu: “Sono semplicemente molto, molto contento di non essere il Presidente, perché non so proprio cosa farei.”
(NOTA: l’ho detto goffamente, alla Pippo, come un coglionotto colto alla sprovvista, strascicando un “Chi? Io? Nossignora!” senza attributi, come mio solito.)
Lei mi fissò per un momento, come se stessa passando ai raggi x la mia anima per determinare se ero un simpatizzante della sua ideologia o qualcosa di… diverso. Alla fine se ne andò a scrivere un assegno per la PETA o a cagarsi sotto per il riscaldamento globale o roba del genere. Per il momento ero salvo.
Durante gli anni a seguire, continuai a starmene in silenzio ogni volta che mi trovavo a confrontarmi con quell’atteggiamento sinistroide, tossico, letteralmente folle, automatico, anti-intellettuale, nel-dubbio-odia-l’America che pervade Hollywood. Ho visto cosa è successo ad altri quando hanno detto qualcosa in controtendenza o in aperto disaccordo con la “linea del partito”. Ho assistito a quella volta in cui uno scrittore che scioccamente aveva espresso il suo sostegno alla guerra in Iraq venne attaccato e strigliato da non meno di sei membri della troupe per quasi 20 minuti buoni.
Quella notte scoprì che la sua macchina era stata rigata con delle chiavi nel nostro parcheggio custodito. Uhm… deve essere stato un vandalo di passaggio. Accidentalmente, sebbene avesse una carriera ben avviata, un numero impressionante di referenze, e sebbene sia uno degli scrittori più talentuosi e versatili che io conosca, i suoi lavori iniziarono a diminuire e adesso in questa città, come si dice, non fa una lira.
I leccapiedi dei mainstream media dicono che a Hollywood non esiste alcuna Blacklist. Ed hanno ragione. Non è necessaria, perché Hollywood è molto, molto piccola. E molto, molto spietata. Un posto dove poche parole-chiave nelle orecchie giuste possono distruggere una carriera in modo definitivo. Parole in codice, come “difficile”, “particolarmente esigente” e “irregolare”. Quando puoi rovinare un collega con qualche espressione ben scelta, perchè mantenere una cosa rozza e volgare come una Blacklist?
Come può qualcuno azzardarsi anche solo a suggerire che ci sia una “lista nera” contro gli artisti e gli interpreti conservatori?
Le Blacklist sono per gli stupidi. Le Blacklist sono per le scimmie. Le Blacklist sono così… così… repubblicane.
Così ho tenuto la bocca chiusa. Ed è successa una cosa buffa: quanto più a lungo ero costretto a tenere per me le mie opinioni e le mie convinzioni, tanto più diventavano chiare come il sole. Buffo. È il modo in cui l’oppressione funziona con gli oppressi. Chiedetelo a qualsiasi fuoriuscito dai Soviet.
Per anni mi sono morso la lingua, annuendo senza emettere suoni compromettenti mentre ascoltavo gli sproloqui sinistrorsi più virulenti e nocivi possibili immaginabili. Esplicite fantasie di violenza sessuale dirette contro Palin, Coulter, Malkin e Ingraham; anatemi che invocavano il cancro, l’omicidio o la mutilazione diretti a Bush, Cheney e Limbaugh; la denigrazione beffarda di quei “civili” (cioè quelli che non lavorano nell’industria dell’intrattenimento) dei “flyover state” (cioè tutti, accetto New York e ciò che sta ad est della Golden State Freeway in California, per esempio Pasadena); e poi ovviamente i sermoni infiniti, velenosi e torniti di volgarità contro il Tea Party.
Ancora più scioccante era l’ipocrisia imperante, la corruzione endemica, i furtarelli occasionali – ad opera dei produttori che ordinano porte e finestre personalizzate per le loro case dal dipartimento per l’edilizia, che hanno i serbatoi delle fuoriserie riempiti da quello di trasporti. E tutto a spese degli studi.
Allo stesso tempo, qualsiasi attrice o scrittrice o dirigente donna può dirti che la figura del “casting sul divano” è una pratica viva e vegeta nella Hollywood contemporanea. Ed è assolutamente affascinante notare come i produttori e i dirigenti programmano le visite ai vari set in esatta coincidenza con le scene di nudo…
E dimenticati della “diversità”. Visita un set, e non puoi non notare che la maggior parte delle troupe è composta da maschi bianchi. Più si va in alto, poi, più la situazione peggiora. Qualsiasi banca, catena di ristorante o megastore che portasse avanti una politica di assunzioni così sfacciatamente monocromatica sarebbe stata denunciata, multata e caduta nell’oblio già decenni fa.
In ogni caso, è bene essere sotto i 40. O sembrare sotto i 40. O almeno ostentare un’incessante chiacchiera da adolescente, da liceale sotto effetto del Ritalin. E attraverso tutto questo, ho tenuto giù la testa. Ogni giorno diventavo sempre più disgustato dalla mia stessa codardia. Ma l’aspetto più intollerabile del vivere sotto questo giogo autoimposto era di gran lunga la solitudine, l’alienazione, l’isolamento.
Poi ho incontrato Andrew Breitbart.
Andrew mi ha presentato altra gente – tanta altra gente – nell’ambiente che condivideva le mie posizioni sulla bellezza incantevole della Costituzione Americana, il mio amore per questa nazione e la mia ferma convinzione del suo essere eccezionale. Non dozzine di persone, badate. Nemmeno centinaia. Siamo inmigliaia. Ma loro sono decine di migliaia.
Così teniamo un basso profilo, lentamente prendendo coraggio quando qualcuno come Gary Sinise, Patricia Heaton, Lionel Chetwynd o Adam Baldwin raggiunge un livello di successo così solido, così a prova di proiettile, che può uscire allo scoperto ed esprimere apertamente la sua opinione senza avere paura di gravi rappresaglie da parte dei Troll. Ora che non ne pagano il prezzo, immaginate quanto più famosi e benestanti diventerebbero se fossero dei chiassosi liberal.
E Dio li aiuti se osano inciampare nella loro vita privata. Le reti di salvataggio e gli scudi protettivi sono strettamente riservati al gruppo Obama-benefattore-pellicce-assassine-cristiani-cattivi-Bush-bugiardo-OccupyWallStreet- Fanculo-TeaParty (se non mi credete, mettete a confronto Charlie Sheen e Mel Gibson).
Ho incontrato Andrew solo tre o quattro volte.
L’ultima volta che abbiamo comunicato è stato attraverso Twitter. Gli ho fatto pubblicamente gli auguri di buon compleanno. In alcuni messaggi diretti che seguirono, scherzai sulla circostanza che aveva “fatto uscire allo scoperto un altro hollywoodiano”. Fraintendendomi, mi rispose di preoccuparmi della mia carriera. Gli assicurai che stavo solo scherzando e chiusi la conversazione.
Quando morì, il mio primo pensiero fu, “Mio Dio. E adesso che facciamo?” Siamo nel bel mezzo di una guerra di idee. In ballo ci sono semplicemente quei principi alla base dei diritti inalienabili e della libertà sui quali poggiano le fondamenta degli Stati Uniti.
E Andrew Breitbart è morto.
Sin dall’amministrazione Wilson, la sinistra socialista ha sostenuto una spinta lenta e inesorabile verso il Big Government, dal Governo, per il Governo, trasformando un popolo che una volta era libero in una nazione di poppanti, smidollata e bisognosa.
Il socialismo corrotto di matrice europea e canadese viene reclamizzato come un caso esemplare. Gli imbroglioni, venditori di fumo, teppisti sindacali e gli scrocconi collettivi hanno dirottato il sistema. La metà di noi non paga le tasse. L’altra metà paga tasse più onerose di quelli che i signori del Medioevo imponevano ai loro servi.
E Andrew Breitbart è morto.
Un Presidente in carica demonizza apertamente le nostre menti più brillanti, lascia che si accumuli l’invidia di classe, corteggia la violenza e l’ostilità razziale, governa per decreto, bypassa il Congresso, ignora spudoratamente gli ordini dei tribunali ed esprime ammirazione per l’efficienza dei totalitarismi.
E Andrew Breitbart è morto.
Questi erano i miei pensieri la scorsa notte quando stavo sorseggiando un drink all’Huntington Langham Hotel. Ho visto il thread dell’hashtag #IAmAndrewBreitbart e gli ho dedicato qualche brindisi. Dibattevo mentalmente sulla possibilità di aggiungermi al thread finché ho pensato, “Ahh, chi se ne frega. E’ solo un tweet. Nessuno se ne accorgerà”.
Tra l’altro non avevo scelta. Il tag era un gioco sulla firma di Spartacus, e io ero lo scrittore e produttore della prima stagione di “Spartacus: Blood and Sand”. Mi è sembrata una cosa del tutto naturale.
Così ho twittato: “Ho scritto Spartacus e #IAmAndrewBreitbart”.
Ho avuto una replica. Roba intelligente. Una nenia sciocca e tipicamente sinistrorsa: “HE LIED AND HE DIED HE LIED AND HE DIED HE LIED AND HE DIED HE LIED AND HE DIED HE LIED AND HE DIED HE LIED AND HE DIED HE LIED AND HE DIED HE LIED AND HE DIED HE LIED AND HE DIED HE LIED AND HE DIED HE LIED AND HE DIED” (n.d.t. ha mentito ed è morto).
Una cosa stupida. Una presa in giro da cortile della scuola, fatta apposta per provocarmi. Non mi avrebbe toccato in una qualsiasi altra serata. Ma la notte scorsa, qualcosa è saltato.
Dodici anni di silenzio. Dodici anni di codardia. Dodici anni di umiliante autocensura. Dodici anni trascorsi a nascondere cosa penso, chi sono e in cosa credo per proteggere lo stipendio che mi dava da vivere.
E Andrew Breitbart è morto.
Tutto ha iniziato ad uscire automaticamente, genuinamente, 140 caratteri alla volta. Tutta la mia rabbia. Tutta la mia indignazione. Come il sangue che spilla da una gola tagliata, così che tutto il mondo potesse vedere.
Poi sono arrivate le email. E i Follow. Mille in un’ora. Ho stretto i denti e le lacrime mi hanno annebbiato la vista mentre scrivevo (così come me la annebbiano ora, mentre scrivo). Il mio eroe è morto. Andrew Breitbart è morto. Lunga vita a Andrew Breitbart.
#IAmAndrewBreitbart.
[traduzione a cura di Irene Selbmann]
Ps. A questo link è possibile scaricare la versione originale dell’articolo di Daniel Knauf (qui la versione originale) con una piccola aggiunta in italiano. In giallo, nel testo, trovate la traduzione contestualizzata delle parolacce contenute nell’articolo. E’ l’unico compenso che Daniel Knauf ci ha chiesto per concederci il diritto a tradurre e pubblicare il suo articolo. Da oggi Daniel potrà inveire in italiano. E voi, se volete, in inglese.