Mr. Gorbaciov, Tear Down this Wall!
Let us be sure that those who come after will say of us in our time, that in our time we did everything that could be done. We finished the race; we kept them free; we kept the faith. (Ronald Reagan)
In Pennsylvania Avenue, tra la Casa Bianca e il Campidoglio, si staglia il più grande palazzo di Washington Dc. È il Ronald Reagan Building, intitolato al quarantesimo presidente Usa, dedicato al commercio internazionale, sede di uffici governativi e teatro di eventi. Nell’atrio, sin dal giorno dell’inaugurazione, fa bella mostra di sé un pezzo di parete grigia, ornata da graffiti. È una parte del Muro di Berlino, dono dei berlinesi e degli impiegati della Daimler Benz, come omaggio in riconoscimento del ruolo del presidente Reagan nella riunificazione della Germania. L’accoppiata Reagan-Muro è così scontata che pezzi autentici di quel che resta della grigia muraglia che divideva in due la capitale della Germania e, simbolicamente, l’Europa intera, si trovano in moltissimi luoghi dedicati al presidente. Un pezzo notevolmente grande – ad esempio – è nel fienile del Rancho del Cielo, in California, per anni residenza di relax e vacanza di Ronald e sua moglie Nancy: una collocazione che l’ex presidente Usa trovava particolarmente spiritosa.
Persino i marinai della nave portaerei Uss Ronald Reagan (Cvn 76) non possono dimenticare il legame tra il presidente a cui è dedicata la loro nave e la storia tedesca. Loro, il Muro, se lo portano dietro in battaglia. Ogni volta che salgono a bordo, si trovano di fronte l’opera dello scultore Chas Fagan: un ritratto in bronzo di Reagan saldato ad un vero pezzo del Muro di Berlino. Esempi come questi potrebbero continuare a lungo. Eppure quando nel 1988 Ronald Reagan lasciò la Casa Bianca al termine del suo secondo mandato alla presidenza degli Stati Uniti, il Muro di Berlino era ancora al suo posto, cupo e angosciante. Il presidente vide la prima volta il Muro di Berlino nel 1978. Quel giorno – narrano gli storici – disse al suo assistente Peter Hannaford: «Dobbiamo trovare il modo per buttare giù questa roba». L’impegno rimase una costante di tutto il suo mandato. Una volta diventato presidente,Reagan tornò a Berlino, ai piedi del Muro, due volte. Nel 1982 fece infuriare i sovietici muovendo un paio di passi cerimoniali attraversando la striscia dipinta a terra che simboleggiava il confine tra l’est e l’ovest. Nel 1987, contro il consiglio di diplomatici e scontrandosi con i papaveri del suo stesso dipartimento di Stato, pronunciò il famoso appello a Gorbaciov che rimane ancora nell’immaginario collettivo una delle immagini più famose di tutta la presidenza Reagan.
Una generazione intera era passata tra il noto «Ich bin ein Berliner» del presidente John F. Kennedy del 1963 e l’altrettanto famoso: «Mr. Gorbaciov, abbatti questo Muro» di Reagan del 12 giugno 1987. Il celebre invito sarebbe rimasto inascoltato per un anno e mezzo ancora. La “marea della storia”, come amava chiamarla Reagan nei suoi discorsi, si sarebbe abbattuta sul Muro, cancellandolo per sempre, solo il 9 novembre del 1989. Quando alla Casa Bianca già abitava, da quasi un anno, George Bush padre. Eppure il discorso di Reagan di fronte alla porta di Brandeburgo rimane il simbolo della vittoria dell’Occidente.
Ma quel discorso, al di là del suo lato simbolico, fu davvero così determinante? Può davvero essere considerato il punto di non ritorno della Guerra Fredda? Nelle dispute storiche su Reagan e la sua presidenza, il discorso del Muro di Berlino ha un ruolo chiave. Se condo alcuni quelle parole furono l’evento che portò alla fine della Guerra Fredda. Secondo altri si trattò invece di un piccolo show, senza sostanza, messo in scena dal presidente-attore ad uso e consumo dei media occidentali e dei suoi fans.
Probabilmente hanno ragione e torto entrambe le scuole di pensiero. Per molti conservatori americani quel discorso ebbe un significato simbolico. Fu la sfida finale lanciata contro l’Unione Sovietica. A quella sfida, Gorbaciov non fu in grado di rispondere con la forza sufficiente e non poté opporsi, quando, due anni più tardi, all’improvviso, i tedeschi buttarono giù il Muro. Per i più devoti tra gli ammiratori del presidente americano, Reagan parlò, i sovietici tremarono, il Muro cadde. E perciò la storia del discorso sotto la porta di Brandeburgo si trasformò in mito. Secondo alcune ricostruzioni storiche, il giorno dopo quell’appello, Gorbaciov avrebbe confidato ai collaboratori la sua netta sensazione: Reagan non avrebbe ceduto sulla questione di Berlino. Il ragionamento del leader del Cremlino era semplice. Se il presidente americano aveva deciso di mettere in ballo con tanta violenza la questione di Berlino – avrebbe detto Gorbaciov ai suoi – l’unica via per proseguire sulla strada del dialogo con l’Occidente sarebbe stata quella di trovare il modo per abbattere il Muro senza perdere la faccia. Un punto era chiaro: il Muro aveva i giorni contati. E per i sovietici si trattava di uscirne con le ossa il meno rotte possibile.
Questa ricostruzione delle preoccupazioni e del pensiero del leader sovietico non ha ancora trovato conferme in atti ufficiali ed è basata soprattutto sulle testimonianze dei collaboratori della Casa Bianca all’epoca dei fatti. Malgrado ciò, si tratta a tutt’oggi della ricostruzione di maggior successo. L’Occidente aveva fatto la voce grossa e i sovietici erano capitolati. Eppure quelli non erano più gli anni della contrapposizione frontale e dell’Impero del Male. Erano già gli anni del dialogo e dei colloqui tra Reagan e Gorbaciov. Erano gli anni dei primi accordi sul controllo degli armamenti e del disarmo bilanciato. Forse proprio per questo esiste un’altra interpretazione del discorso del Muro. E anche in questo caso di tratta di un’interpretazione non solo dei molti storici democratici e di sinistra, ma anche di alcuni tra i collaboratori dell’amministrazione di George H. W. Bush.
In un libro sulla fine della Guerra Fredda del 1995, due ex funzionari della prima amministrazione Bush, Condoleezza Rice e Philip Zelikow, minimizzano il significato del discorso del Muro di Berlino e il ruolo che ebbe negli eventi che portarono alla fine delle Guerra Fredda.Si fa notare, infatti, che all’indomani del discorso non ci fu in realtà alcuna seria reazione, né alcun seguito immediato. Nessuno cominciò concretamente a costruire una strategia o ad avere come obiettivo specifico l’abbattimento del Muro di Berlino. I diplomatici americani, semplicemente, non consideravano questa questione parte di una realistica agenda politica. Rice e Zelikow non sono isolati in questa analisi. La pensa così ad esempio Brent Scowcroft, consigliere nazionale per la sicurezza di George H. W. Bush. Ma anche alcuni dei consiglieri diplomatici dello stesso Reagan.
Eppure chi archivia il discorso del Muro come insignificante, sba- glia. Perché non ne coglie almeno un punto fondamentale: quello del rapporto di Reagan con la pubblica opinione del suo paese e del supporto che gli fece ottenere in patria nei confronti di una politica estera altrimenti dura da digerire. Un sostegno fondamentale per portare avanti il progetto della distensione.
Per capire il significato politico del discorso della porta di Bran- deburgo, occorre capire in che contesto fu preparato. Durante la primavera del 1987, i conservatori americani cominciavano a dubitare della fermezza di Reagan. Temevano il nuovo approccio conciliatorio nei confronti di Mikhail Gorbaciov e il malumore serpeggiava tra gli opinionisti del Gop. In questo clima, gli speech writers della Casa Bianca cominciavano a lavorare ad un discorso che il presidente avrebbe dovuto pronunciare Oltreoceano. Quel giugno Reagan sarebbe andato a Venezia per la riunione del G7. Da lì il pro gramma prevedeva una breve sosta a Berlino, in occasione delle celebrazioni per i 750 anni dalla fondazione della città. Il punto su cui s’interrogavano i consiglieri era: che cosa avrebbe dovuto dire il presidente?
Nei mesi precedenti, Reagan era stato costantemente sotto attacco negli Stati Uniti per il suo atteggiamento troppo condiscendente nei confronti di Gorbaciov. I conservatori erano particolarmente furiosi. Non solo per i continui colloqui amichevoli con Gorbaciov (a Reykjavik il presidente americano si era spinto fino a parlare dell’abolizione delle armi nucleari), ma anche perché il vento sembrava cambiato: come se il presidente stesse per la prima volta abbassando la guardia nei confronti dell’Impero del Male. Di segnali – sempre secondo i più accreditati opinionisti conservatori – ce n’erano a bizzeffe.
Uno per tutti: nel settembre del 1986 il Kgb sequestrò Nicholas Daniloff, giornalista di Us News & World Report come ritorsione per l’arresto di un agente segreto sovietico in America. Reagan scelse di non seguire la linea dura, anzi si adoperò per negoziare uno scambio. Gettando i suoi ammiratori più coriacei nel più cupo sconforto. Era chiaro che questi eventi erano destinati ad essere solo il prologo della nuova politica reaganiana. Agli americani e ai conservatori in particolare sembrava evidente ormai che Reagan avesse tutta l’intenzione di condurre con i sovietici ben altri “affari”. Come se non bastasse, proprio in quel periodo, il dialogo con Gorbaciov aveva ottenuto persino la benedizione del premier britannico Margaret Thatcher, solitamente molto dura e guardinga.
Nella primavera del 1987, Reagan era nel bel mezzo del delicato negoziato che avrebbe portato a due nuovi summit con il leader sovietico a Washington e a Mosca. La sua amministrazione lavorava freneticamente all’accordo per il controllo degli armamenti, un trattato sulle armi nucleari a medio raggio che avrebbe dovuto essere poi ratificato dal Senato. E che a Washington cominciava a raccogliere attorno a sé un bel po’ di oppositori.
In questo difficile clima fu scritto il discorso del Muro. Incaricato di stendere la prima bozza fu Peter Robinson uno dei giovani speech writers del presidente. L’appuntamento di Reagan a Berlino era per giugno. Ad aprile Robinson fu spedito in Germania, insieme ad altri collaboratori della Casa Bianca, per preparare la visita presidenziale. Obbiettivo del viaggio confrontarsi con i diplomatici e decidere l’impostazione dell’intervento. Diversi anni più tardi, in un libro di memorie, Robinson racconterà di aver ottenuto per lo più indicazione di cosa il presidente “non” avrebbe dovuto dire. Sul questo punto tutti sembravano avere le idee piuttosto chiare: il discorso “non” avrebbe dovuto sfidare i sovietici, “non” avrebbe dovuto scaldare i cuori dei berlinesi, “non” avrebbe dovuto contenere affermazioni troppo pesanti sul Muro di Berlino. Abbandonati i diplomatici e i funzionari, dopo un paio di giorni passati in mezzo ai berlinesi, Robinson si fece un’idea diversa.
Oggi racconta di una discussione con una ragazza particolarmente arrabbiata che gli disse: «Se questo Gorbaciov fa sul serio quando parla di glasnost e perestroika, ha un modo per provarlo: elimini il nostro Muro!». Quella ragazza arrabbiata fu alla fine migliore fonte di ispirazione di tutte le lezioni diplomatiche. Robinson buttò giù la traccia del famoso discorso. Molti cercarono di mitigarlo, ma a Reagan piacque e perciò fu pronunciato esattamente come da copione. Quel che i papaveri della diplomazia non capivano e che Reagan aveva perfettamente intuito era che il discorso del Muro di Berlino era un’occasione politica unica per lanciare un messaggio ai propri sostenitori in patria, per ribadire la filosofia dell’intera presidenza Reagan e ricompattare il consenso attorno alla Casa Bianca. In termini squisitamente politici, quel consenso era il prerequisito essenziale per i futuri negoziati con i sovietici. Mentre quei negoziati servirono, dall’altra parte, a creare un clima molto più rilassato nel quale i sovietici poterono
accettare con meno strappi la caduta della cortina di ferro.
Chi minimizza il discorso del Muro sbaglia anche per un altro motivo. Ignora l’importanza del messaggio che mandò a Gorbaciov. E cioè che gli Stati Uniti erano pronti a trovare una soluzione insieme all’Urss, ma non a costo di accettare la divisione permanente di Berlino e di conseguenza dell’Europa. In superficie il discorso di Reagan poteva apparire semplicemente il seguito naturale di un altro storico discorso reaganiano. Quello pronunciato a Westminster nel 1982 in cui il presidente aveva predetto che il diffondersi della libertà avrebbe consegnato il marxismo-leninismo alle ceneri della storia.
Andando più a fondo, invece, il discorso del Muro rifletteva un importante cambiamento nel pensiero del presidente. Reagan era ormai convinto che qualcosa si stesse davvero muovendo nell’Unione Sovietica e che, vo- lente o nolente, Gorbaciov rap presentava quella sottile speranza di cambiamento a Mosca. Perciò mentre ai piedi del Muro ripeteva i capisaldi dell’anticomunismo sui quali aveva impostato tutta la propria carriera politica, Reagan allo stesso tempo riconosceva la possibilità che qualcosa nel sistema sovietico stesse davvero accadendo. «Mosca parla di riforme e apertura», disse Reagan ai piedi del Muro. «Queste parole rappresentano davvero l’inizio di profondi cambiamenti nello Stato sovietico?». Alla domanda Reagan non cercò nemmeno di rispondere. Quel che fece, invece, fu di stabilire un nuovo test per la valutazione delle politiche nuove annunciate da Gorbaciov: «Esiste un segnale che i sovietici possono dare, che non potrebbe essere frainteso e che farebbe avanzare incredibilmente la causa della libertà e della pace. Segretario generale Gorbaciov, se cerchi la pace, se cerchi la prosperità per l’Unione Sovietica e l’Europa dell’Est, se cerchi la libertà: vieni a questo cancello! Mr. Gorbaciov, apri questo cancello! Mr. Gorbaciov, abbatti questo Muro!».
Dal punto di vista della stretta dottrina di politica estera, il discorso di Reagan non diceva asso- lutamente nulla di nuovo. Dopo tutto, che il Muro dovesse essere abbattuto era uno dei capisaldi della posizione americana sin dal giorno in cui fu costruito. Lo stesso Reagan l’aveva detto e ripetuto in innumerevoli occasioni. Nel 1982, durante la visita a Berlino ovest («Che ci fa qui questo Muro? »); nel 1986, per il venti- cinquesimo anniversario della sua costruzione («Vorrei vedere questo Muro cadere giù oggi, e mi appello ai responsabili perché lo smantellino»). L’elemento nuovo del 1987 non era l’idea che il Muro dovesse essere abbattuto, ma l’appello diretto a Gorbaciov perché lo abbattesse.
Quando il discorso di Reagan fu scritto, i massimi consiglieri e dirigenti del dipartimento di Stato e del National security council provarono ripetutamente a cancellare quell’appello. Credevano che parole così dure avrebbero compromesso lo sviluppo delle delicate relazioni tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Proprio come alcuni degli interpreti storici dei giorni nostri, quegli ambasciatori e quei funzionari non capirono il gesto di equilibrio che Reagan stava compiendo. Non stava cercando di mettere ko, con un unico discorso da bullo, il regime sovietico e nemmeno stava semplicemente recitando un pezzo di teatro politico. Stava facendo qualcos’altro, quel giorno, a Berlino. Stava cercando di incastrare un altro tassello della politica che avrebbe consentito all’Occidente di vincere la Guerra Fredda. Come avrebbe detto anni più tardi Margaret Thatcher, “senza nemmeno sparare un colpo”.
Peace is not the absence of conflict, it is the ability to handle conflict by peaceful means. (Ronald Reagan)
da “Charta Minuta” (2009)