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Morte di un comunista
È morto uno dei grandi nomi di quello che lui stesso chiamò ‘il secolo breve’. Non è da tutti dare nome ad un secolo. Eric Hobsbawm ne dette una definizione affascinante, una lettura che tutti noi abbiamo imparato al liceo e incontrato nuovamente all’università. Quando scompare un uomo di cultura di tanta fama, siamo ormai abituati a leggere su tutti i giornali fac-simile di editoriali, prodighi di lodi sperticate e genuflessioni adoranti. E in questi giorni, sui quotidiani nazionali ed esteri, ne abbiamo letti molti.
Spesso in Italia ci troviamo a discutere sull’orientamento politico delle università e delle élite culturali, descrivendole come un mondo vicino alla sinistra. Gli altri paesi non sono esenti dalla stessa discussione. E la morte di Hobsbawm ha fatto riemergere per l’ennesima volta questo annoso dibattito.
Lo storico britannico Michael Burleigh, sul Telegraph di lunedì primo ottobre, firma un editoriale controcorrente, cercando di dare una visione critica e meno artefatta (e forse proprio per questo più umana e meno santificata) del celebre storico, mettendo in evidenza i suoi limiti e i vizi della sua ricerca.
L’editoriale si apre con una presa di distanza netta dalle posizione marxiste di Hobsbawm (che Burleigh, liberal-conservatore, non può certo condividere), e con la premessa che la sinistra inglese è ancora ampiamente egemonica nei dipartimenti di scienze umane e sociali delle università del Regno Unito. La vocazione politica di Hobsbawm, infatti, non fu mai un mistero. Si definì pienamente in giovane età, con la sua adesione alla Association of Socialist Pupils, fronte della Young Communist League, passando per la sua posizione dominante all’interno del Communist Party Historians Group. Burleigh racconta di come egli si ritenesse vittima di “una versione soft del maccartismo, che impediva ai marxisti come lui di avere una promozione per 10 anni”. Ma aggiunge anche che “questi ostacoli alla carriera evidentemente non furono insormontabili, dal momento che Hobsbawm ottenne una cattedra nel 1970”.
Ciò che Burleigh cerca di spiegare è che la fede politica di Hobsbawm gli impedì di svolgere in modo intellettualmente onesto la professione di storico. Come? Hobsbawm rifiutò dogmaticamente che la Rivoluzione Bolscevica era stata un sanguinario fallimento. A questo proposito Burleigh ricorda come lo storico rispose affermativamente quando un giornalista canadese gli domandò se la morte di 20 milioni di esseri umani nell’URSS si sarebbe potuta giustificare se fosse servita a realizzare l’Utopia Rossa. “Tutto ciò che Hobsbawm scrisse” – continua Burleigh – “minimizzò ingannevolmente il losco ruolo dei comunisti nella Spagna degli anni 30 o l’atto di forza dei colpi di stato che i sovietici portarono avanti nell’Europa dell’est dopo il 1945. Un intellettuale così cosmopolita, ironicamente imprigionato in un ghetto ideologico tanto provinciale”.
Ma Burleigh non punta il dito tanto (o solo) verso la sinistra inglese, quanto verso la destra, che negli anni ha permesso che figure del genere potessero “dominare lasoft culturedella BBC e le nostre università”.