USA 2012 – 05. VIRGINIA
Questo articolo – pubblicato su Il Foglio del 12 settembre – è il quinto di una serie dedicata agli swing states delle elezioni presidenziali Usa. Ecco i link agli articoli precedenti: Colorado, Nevada, Florida, North Carolina.
La Virginia è uno stato in movimento. Prima democratico, poi repubblicano, oggi specchio fedele dell’elettorato a livello nazionale, dunque swing state per eccellenza. Da quando, nel 1856, il Gop concorre per la prima volta alle elezioni presidenziali, la Virginia partecipa a 37 cicli elettorali (saltando 1864 e 1868 a causa della Guerra Civile): 19 le vittorie democratiche; 17 quelle repubblicane; una quella di un “terzo partito” (il Constitution Union Party, con John Bell, nel 1860). A parte la risicata vittoria di Ulysses Grant nel 1872 (+1% contro Horace Greeley) e quella più netta di Herbert Hoover nel 1928 (+8% contro Alfred Smith), i Democratici dominano ininterrottamente in Virginia fino al 1948 – per 92 lunghissimi anni – con percentuali che oscillano dal +0,5% di Grover Cleveland contro Benjamin Harrison nel 1888 al +49% di Woodrow Wilson contro William Taft nel 1912.
Grazie al costante disenfranchisement dell’elettorato afro-americano e all’efficienza della macchina del partito – controllata con pugno di ferro da personaggi come Harry F. Byrd (prima governatore e poi potentissimo senatore) – i Democratici instaurano in Virginia, come in molti altri stati del sud, una sorta di “sistema a partito unico” che non lascia alcuno spazio al Gop, né a livello locale né a livello nazionale. Nell’era-Roosevelt, FDR massacra letteralmente tutti gli avversari repubblicani: +38% contro Hoover nel 1932; +41% contro Alfred Landon nel 1936; +37% contro Wendell Wilkie nel 1940; +25% contro Thomas Dewey nel 1944. Ma i primi segni di cedimento della coalizione democratica arrivano in anticipo, rispetto agli altri stati della vecchia Confederazione. Il campanell0 d’allarme, per i Democratici, suona nel 1948, quando il distacco di Harry Truman da Dewey non riesce ad andare oltre il 6,5%.
Con la vittoria di Dwight Eisenhower su Adlei Stevenson nel 1956 (+17%), inizia una lunga supremazia del Partito repubblicano che – a parte la parentesi di Lyndon Johnson nel 1964 (+7% contro Barry Goldwater) – si interromperà soltanto nel 2008 con la vittoria di Barack Obama. Nel 1956 Eisenhower conferma l’avvenuto passaggio dell’Old Dominion nella colonna degli stati “rossi” (+17% sempre contro Stevenson). Poi ci sono le tre vittorie di Richard Nixon: +6% contro John F. Kennedy nel 1960; +31% contro Hubert Humphrey nel 1968; +37% contro George McGovern nel 1972. Neppure il “sudista” Jimmy Carter riesce a riportare a casa la Virginia, perdendo nel 1976 (+2% a favore di Gerald Ford) e nel 1980 (+13% per Ronald Reagan). E proprio Reagan, nel 1984, passeggia sul malcapitato Walter Mondale, con un distacco analogo (+25%) a quello fatto registrare da George Bush Sr. nel 1988 contro Michael Dukakis (+20%). Bill Clinton – soprattutto grazie al 13,6% conquistato da Ross Perot – riduce sensibilmente lo svantaggio democratico contro Bush Sr. nel 1992 (+4%) e Bob Dole nel 1996 (+2%). Ma la Virginia si ostina a rimanere una roccaforte del Gop anche all’inizio del millennio: George Bush Jr. batte Al Gore nel 2000 e John Kerry nel 2004 con margini intorno all’8%.
Si tratta, però, del “canto del cigno” per l’egemonia repubblicana. Perché nel 2008 Barack Obama, portando a votare almeno mezzo milione di nuovi elettori democratici, batte sonoramente John McCain (+6,3%) e conquista i 13 voti elettorali dello stato, riportando definitivamente la Virginia nell’esclusivo club degli swing states.
Osservando i risultati del 2008, è importante sottolineare come la vittoria di Obama non sia arrivata al termine di una performance particolarmente negativa del candidato repubblicano. McCain, infatti, è andato più o meno come Bush quattro anni prima (anzi, in termini assoluti ha raccolto 8.046 voti in più). È stato invece il turn-out eccezionale dei Democratici (504.790 voti in più rispetto al 2004) a far pendere la bilancia dalla parte di Obama. E il presidente, a novembre, dovrà cercare di ripetere questa impresa – per molti versi unica – se vuole mantenere l’Old Dominion nella colonna “blu”. Ma i punti di forza della tradizione repubblicana nello stato non devono essere sottovalutati.
Gli exit poll del 2008 ci forniscono un quadro interessante, anche se incompleto, dell’elettorato repubblicano in Virginia. La razza è senza dubbio un fattore importante (il 60% dei bianchi ha votato McCain, rispetto al 55% a livello nazionale), come lo è la religione: l’80% dei white evangelicals ha votato per il candidato del Gop quattro anni fa. Una discriminante meno decisiva, invece, sembra essere il genere: il gap tra Repubblicani e Democratici nel voto maschile e femminile è, in Virginia, molto meno accentuato che nel resto degli Stati Uniti. E gli exit poll non evidenziano neppure grandi differenze in base al reddito.
A livello geografico, i Repubblicani sono forti nelle contee occidentali dello stato, nella panhandle al confine con Tennessee, Kentucky e West Virginia. In questa zona soprattutto rurale, attraversata dai Monti Appalachi, i Democratici dominavano fino a qualche decennio fa. Ma oggi il Gop scende raramente sotto al 55%, raggiungendo punte del 65-70% in contee come Smith, Washington, Whyte e Tazewell. Storicamente il Partito repubblicano è anche molto presente nei suburbs (sobborghi) e negli exurbs (centri residenziali extra-urbani) intorno a Richmond, la capitale al centro dello stato, e intorno ad Hampton Roads, la popolosa area metropolitana di Norfolk-Virginia Beach nella zona costiera orientale. Anche negli anni i cui i Democratici dominavano nelle contee dell’ovest, i Repubblicani riuscivano quasi sempre a ribaltare il risultato grazie alle performance ottenute in contee come Chesterfield (i sobborghi tra Richmond e Petersburg) e Virginia Beach.
I candidati del Partito democratico, invece, sono sempre andati molto bene nelle contee a maggioranza nera del sud-est (Brunswick, Surry, Sassex, Charles City) e in una buona parte delle 39 “città indipendenti”, che a livello amministrativo in Virginia sono equiparate alle contee (da Richmond a Newport, da Portsmouth a Norfolk). Poi, naturalmente, c’è la vera roccaforte del partito di Obama: l’area metropolitana a sud di Washington in cui vive la maggior parte della popolazione del Nord Virginia. Si tratta di una grande area suburbana in espansione, che ha acquistato sempre più importanza negli equilibri elettorali dello stato.
Contee come Arlington, Fairfax, Loudoun e Prince William, che fino alla seconda guerra mondiale erano ancora in gran parte rurali, nella seconda metà dello scorso secolo hanno cominciato a crescere vertiginosamente, soprattutto a causa dell’espansione senza freni del governo federale inaugurata dal New Deal. Alle elezioni presidenziali del 1940, gli elettori della contea di Arlington erano meno di 10mila. Oggi questo numero si è più che decuplicato. E soltanto a Fairfax si supera abbondantemente il mezzo milione di elettori. A differenza che in molti altri sobborghi sparsi nel resto degli Stati Uniti, il Nord Virginia non è mai stato una vera roccaforte repubblicana. I candidati del Gop alle presidenziali, da queste parti, raggiungevano raramente il 60% dei voti, soglia che invece era considerata agevole da superare nei sobborghi intorno a Richmond. Così, quando la zona è iniziata a diventare sempre meno omogenea sotto il profilo demografico, con un forte influsso di minoranze inclini a votare per i candidati democratici e la presenza sempre più numerosa di famiglie la cui fonte di reddito (molto superiore alla media nazionale) è rappresentata dal governo federale, il Nord Virginia si è trasformato – nel giro di qualche decennio – in una fortezza “blu” davvero difficile da espugnare.
Demograficamente, il Nord Virginia è una rappresentazione piuttosto fedele degli Stati Uniti nel loro complesso. Nella contea di Fairfax, neri e ispanici costituiscono rispettivamente il 9,4% e il 13,5% della popolazione (a livello nazionale sono il 12,3% e il 15,1%). Ma si tratta di percentuali che, rispetto al censimento del 2000, sono cresciute sensibilmente. Un’altra caratteristica di queste contee è il livello molto elevato del reddito medio. A Fairfax e Loudoun – che secondo uno studio del 2008 sono le contee più ricche di tutti gli Usa – le entrate familiari superano abbondantemente i 100mila dollari all’anno, più di un terzo dei cittadini al di sopra dei 25 anni è laureato (contro il 10% a livello nazionale) e l’ aspettativa di vita è tra le più alte degli Stati Uniti.
Sono due, però, i particolari che impediscono ai Democratici di affidarsi ciecamente alle dinamiche demografiche del Nord Virginia, anche nei prossimi anni, per conquistare una maggioranza strutturale nell’Old Dominion. Il primo problema è che, con le elezioni del 2008, il partito di Obama potrebbe aver raggiunto (o quasi) il suo “tetto massimo” di consenso nella zona. Raramente i sobborghi concedono ad uno dei due partiti più del 60% dei propri voti. E quando questo accade – come nella Bay Area di San Francisco, in California – il fattore decisivo è rappresentato da minoranze etniche che diventano “maggioranza”. Questo, in Nord Virginia, non è destinato ad accadere almeno per i prossimi decenni. In più, alla Virginia manca uno dei pezzi fondamentali che compongono il “puzzle” perfetto di una roccaforte democratica: una grandissima e poverissima metropoli totalmente dipendente dal welfare. La buona notizia, per i Democratici, è che questa città esiste. La cattiva notizia è che si chiama Washington D.C. e non si trova dentro i confini della Virginia.
Per conservare i 13 voti elettorali dell’Old Dominion, insomma, a novembre Obama dovrà ripetere il miracolo del 2008, o almeno sfoderare una performance molto simile, soprattutto a livello di turn-out. Dalla sua parte, c’è lo slittamento demografico che favorisce le zone che stanno diventanto più democratiche (il nord) e penalizza quelle che stanno diventando più repubblicane (il sud-ovest). E non va sottovalutato neppure il discreto (se comparato con il resto degli Stati Uniti) stato di salute dell’economia in Virginia. Contro di lui, invece, gioca soprattutto l’incognita dei sobborghi, non tanto a nord quanto a Richmond ed Hampton Roads, che molti considerano pronti a tornare dalla parte del Gop dopo la parentesi di quattro anni fa. E nei quali è attivissimo il movimento dei Tea Party, che nel 2009 è stato decisivo per la riconquista della poltrona di governatore da parte del Partito repubblicano.
Proprio l’elezione che, nel novembre del 2009, ha portato alla vittoria Bob McDonnell con più di 17 punti percentuali di vantaggio nei confronti di Creigh Deeds, rappresenta l’incubo peggiore per i Democratici che sperano di portare definitivamente la Virginia nella colonna degli stati “blu”. McDonnel ha stravinto soprattutto nei sobborghi, con ottimi risultati anche in quelli del nord. E le elezioni di mid-term del 2010, con i tre seggi della Camera strappati da Gop ai Democratici, hanno confermato questa tendenza favorevole ai Repubblicani.
Per vincere ancora in Virginia, insomma, a Obama serve un’onda come quelle del 2006 e del 2008. Se però quest’onda fosse dipinta di “rosso scuro”, come quelle del 2009 e del 2010, allora il Gop potrebbe tornare a sorridere. E magari puntare anche al seggio del Senato lasciato vacante da Jim Webb, che oggi l’ex governatore ed ex senatore repubblicano George Allen (sconfitto da “incumbent” nel 2006) contende all’ex governatore ed ex sindaco di Richmond, il democratico Tim Kaine. Una vittoria al Senato sarebbe, per entrambi i partiti, la “ciliegina” perfetta sulla quella “torta” grande, succulenta (e probabilmente decisiva) che è diventata la Virginia.
(5/continua. Nella prossima puntata: il New Hampshire)