The right to rise
KISSIMMEE, FLORIDA – Jeb Bush per i repubblicani della Florida è una specie di gigantesca istituzione. E’ certamente il governatore più amato. Molto più amato dell’attuale, Rick Scott, che il GOP tiene sapientemente nascosto in cantina, convinti come sono da queste parti che il suo basso tasso di popolarità possa rappresentare una zavorra difficilmente sostenibile per Mitt Romney e Connie Mack.
Quando arriva nel quartier generale repubblicano di Kissimmee, i volontari aspettano solo lui. E le star designate dell’evento, due dei figli di Mitt Romney, passano subito in secondo piano. Jeb Bush prende la scena con una presenza non solo fisica che manifesta il grande ascendente che il fratello di W ha sulla comunità locale.
Non si nasconde dietro un dito, ammette subito con franchezza che c’è qualcosa di personale che gli rende poco simpatico Obama ed è tutto questo prendersela con il fratello George per le cose che non vanno. “Abbiamo bisogno – spiega – di un presidente che non scarichi su altri le sue colpe ma che sappia assumersi le proprie responsabilità di commander in chief: quel presidente è Mitt Romney”. La platea si scalda e allora Jeb fa quello che gli riesce meglio, spiega le differenze ideali che esistono tra la nazione che ha in mente Obama e quella che vorrebbero i repubblicani.
“Prendete l’energia. Obama ha passato gli ultimi quattro anni a finanziare aziende come Solyndra che sono fallite portandosi via i soldi dei contribuenti come voi che già stanno affrontando una crisi aggravata dall’intervento pubblico del governo. Invece di rilanciare l’occupazione – ha attaccato Bush – Obama ha gettato al vento un sacco di soldi pubblici e contemporaneamente ha permesso al prezzo della benzina di schizzare alle stelle.” Per l’ex governatore del sunshine state non è solo questione di energia ma di visione del mondo: “Con queste elezioni abbiamo la possibilità di dimostrare una volta ancora che quando il governo lascia i nostri imprenditori liberi da tasse e vincoli loro da soli sono in grado di fare molto di più e molto meglio di qualsiasi programma governativo pensato da qualche burocrate a Washington. Il governo non deve dare sussidi a questo o a quello, non deve scegliere ‘winners and losers”, deve creare le condizioni perché gli individui possano misurarsi e avere uguali condizioni di partenza”.
Poi la frase ad effetto che richiama un suo splendido editoriale di qualche mese fa sul Wall Street Journal: “We have the right to rise”. Game, set and match direbbero gli appassionati di tennis. In pochi minuti (ha parlato meno di un quarto d’ora), Jeb è riuscito a concentrare tutto quello che serve al partito repubblicano per tornare a vincere e ci ha dato, insieme, una botta di entusiasmo e una di amarezza per lo stato penoso in cui versa il centrodestra italiano.
Dopo di lui hanno parlato due dei cinque figli di Mitt Romney, Josh e Matt. Si sono presentati all’incontro con prole al seguito e hanno raccontato alcuni sprazzi di vita privata del padre: i giorni del ritiro dalle primarie 2008 in favore di John McCain, la voglia di riprovarci, la sensazione di essere davanti ad un bivio storico per sé e per l’America. Facce pulite, qualche timidezza iniziale ma discorsi tutt’altro che scontati e pieni di passione civile. L’impressione è che il futuro riservi anche a loro, soprattutto a Josh, uno spazio in politica. E così, dopo la dinastia dei Bush, al GOP potrebbe toccare quella dei Romney. Con 5 figli e 16 nipoti sarebbe una prospettiva di lungo periodo.