USA 2012 – 11. OHIO

Questo articolo – pubblicato su Il Foglio – è l’undicesimo (e ultimo) di una serie dedicata agli swing states delle elezioni presidenziali Usa. Ecco i link agli articoli precedenti: Colorado, Nevada, Florida, North Carolina, Virginia, New Hampshire, Wisconsin, Iowa, Pennsylvania, Michigan.


QqqqL’Ohio vota per il candidato vincente alle elezioni presidenziali da quasi mezzo secolo, ininterrottamente. Se poi si escludono le vittorie, non replicate a livello nazionale, di Richard Nixon nel 1960 (+6,5% contro John F. Kennedy) e di Thomas Dewey nel 1944 (+0,5% contro Franklin D. Roosevelt), il Buckeye State ha “scelto” il presidente in ogni tornata elettorale dal 1896 ad oggi. Tutti i candidati democratici che hanno vinto in Ohio sono finiti alla Casa Bianca. E nel ventesimo secolo soltanto due democratici – FDR e JFK, appunto – sono riusciti ad arrivare alla presidenza senza vincere in questo stato. Ma la vera natura di “bellweather state” riguarda i repubblicani: nessun candidato del GOP è mai riuscito a conquistare la Casa Bianca senza i voti elettorali dell’Ohio. Ma andiamo con ordine. Per 54 anni consecutivi – dal 1856 al 1908 – il Partito repubblicano domina nel Buckeye State alle presidenziali. Il record è impressionante, ma il margine di distacco del GOP non è quasi mai abissale: il risultato migliore è il +25% di Theodore Roosevelt contro Alton Parker nel 1904, ma non mancano arrivi sul filo di lana come quelli di Rutherford Hayes nel 1876 (+1% contro Samuel Tilden) o di Benjamin Harrison nel 1892 (+0,1% contro Grover Cleveland). In media, comunque, i repubblicani restano 6-7 punti percentuali sopra i democratici. Nel 1912, Woodrow Wilson e la scissione repubblicana che porta alla candidatura indipendente di Teddy Roosevelt interrompono la striscia vincente del GOP. Wilson si riconferma nel 1916: sarà proprio l’Ohio l’unico stato del Midwest a premiarlo, regalandogli i 24 voti elettorali necessari per restare alla Casa Bianca (Wilson batte Charles Hughes 277-254). Nelle tre elezioni successive, però, il Partito repubblicano ottiene alcune delle sue affermazioni più nette, con il +20% di Warren Harding (contro James Cox nel 1920), il +35% di Calvin Coolidge (contro John Davis nel 1924) e il +30% di Herbert Hoover (contro Alfred Smith nel 1928).

L’Ohio, come il resto della nazione, si sposta nella colonna democratica durante l’era-Roosevelt. Ma FDR fatica più che altrove. Soltanto nel 1936 la sua vittoria è netta (+30% contro Alfred Landon), mentre nel 1932 batte Hoover di poco (+2,5%) e nel 1940 il suo distacco da Wendell Willkie (+5%) è la metà esatta di quello ottenuto a livello nazionale. Nel 1944, Roosevelt perde di un soffio (poco più di 10mila voti) contro Thomas Dewey. Uno svantaggio minimo, ma superiore a quello con cui, quattro anni dopo, Harry Truman batte Thomas Dewey (7mila voti, pari allo 0,2%). Dopo questa coppia di finali al fotofinish, l’Ohio torna alla “normalità repubblicana”: Dwight Eisenhower batte Adlai Stevenson due volte (+13% nel 1952, +23% nel 1956), mentre le tre vittorie di Nixon (la più larga nel 1968, con il +21% contro George McGovern) sono interrotte soltanto dal +25% rifilato da Lyndon Johnson nel 1964 a Barry Goldwater. Sono anni di profondo riallineamento elettorale degli Stati Uniti, ma il Buckeye State continua imperterrito a scegliere i candidati vincenti: Jimmy Carter nel 1976 (+1% contro Gerald Ford); Ronald Reagan nel 1980 (+11% contro Carter) e nel 1984 (+18% contro Walter Mondale); George Bush Sr. nel 1988 (+11% contro Mike Dukakis); Bill Clinton nel 1992 (+2% contro Bush Sr.) e nel 1996 (+6% contro Bob Dole); George W. Bush nel 2000 (+3% contro Al Gore) e nel 2004 (+2% contro John Kerry).

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In tutti i casi, il risultato dell’Ohio è leggermente più favorevole al GOP in rapporto al dato nazionale. La “deviazione” può essere minima (il +0,35% di Bush Jr. nel 2004) o più vistosa (il +4,03%, sempre di Bush, nel 2000), ma lo stato sembra pendere regolarmente più a destra rispetto al resto degli Stati Uniti. Una “regola” a cui non sfugge neppure la storica vittoria di Barack Obama nel 2008. Il presidente, che a livello nazionale vince con oltre 7 punti percentuali di distacco, in Ohio si ferma al 4,5%. Ma questa è l’unica “non anomalia” del risultato di quattro anni fa. L’Ohio è una sorta di “riproduzione in scala” dell’intera nazione americana. Nel Buckeye State si può trovare di tutto: un pezzo di nord-est e un pezzo di profondo sud; aree urbane e aree rurali; zone povere in declino e sobborghi ricchi in rapida espansione; grandi industrie e grandi distretti commerciali; contee molto “liberal” e contee dalla solida tradizione conservatrice. Geo-politicamente, è possibile dividere lo stato in cinque regioni distinte: una centrale e quattro nei rispettivi “angoli”. E le differenze tra queste quattro regioni sono spesso superiori a quelle che si possono trovare passando da uno stato a un altro. Quasi ovunque, però, repubblicani e democratici hanno una base elettorale sufficiente per essere competitivi.

Fino ai primi anni del ‘900, con il Buckeye State solidamente in mano repubblicana, la base democratica è concentrata in un certo numero di contee rurali abitate in maggioranza da immigrati di origine tedesca. Abbastanza da impedire vittorie travolgenti al GOP, ma non abbastanza per trasformare l’Ohio in uno stato realmente in gioco. A cambiare per sempre questo schema è Franklin D. Roosevelt che, con il New Deal, trasforma la struttura politica dello stato in quella che conosciamo oggi. Il successo più evidente di FDR è quello di portare dalla parte democratica le popolose contee working-class del nord-est intorno a Cleveland (Cuyahoga, ma anche Lorain e Summit), fino ad allora roccaforti del Partito repubblicano. Mettendo di fianco la cartina delle elezioni del 1932 e quella del 1940 la differenza è impressionante. Nel ’32 FDR vince a Cleveland, in qualche contea al confine orientale con la Pennsylvania e in quasi tutte le contee rurali dell’ovest. Nel ’40, a parte Cleveland, il risultato è diametralmente opposto: l’ovest e Cincinnati passano ai repubblicani, Columbus diventa democratica, le contee orientali si scambiano le casacche (il nord passa da “rosso” a “blu”, il sud compie il tragitto inverso).

La coalizione elettorale con cui FDR vince in Ohio nel 1940 è rimasta praticamente inalterata fino al 2008. I democratici dominano nelle città nel nord (Cleveland, Akron e Toledo) e i sindacati controllano le aree industriali distribuite, abbastanza uniformemente, tra il confine settentrionale e quello orientale dello stato. Le contee “blu”, insomma, formano in genere una sorta di “7”che parte da Toledo (nord-ovest), passa per Cleveland (nord-est) e Youngstown (est), per poi scendere verso sud seguendo il confine con la Pennsylvania. Migliore è il risultato democratico, più questo “7” (che secondo qualcuno assomiglia anche ad una “C” al contrario) diventa grande e riconoscibile. La vittoria di Clinton nel 1996 è una rappresentazione quasi perfetta di questo schema.

L’unico democratico (vincente) del Dopoguerra capace di sfuggire a questo schema è proprio Obama, che riesce a mettere insieme una coalizione sostanzialmente diversa da quella classica creata da FDR. Obama vince nella Hamilton County di Cincinnati e contiene le perdite nei sobborghi del sud-ovest (Butler, Warren, Clermont), compensando così un risultato inferiore alle aspettative nelle contee dell’est (Trumbull, Columbiana) e del sud-est (Jefferson, Belmont, Monroe), zone in cui di solito i candidati democratici forti vincono abbastanza facilmente. Gran parte dei voti obamiani continuano ad arrivare dalle città industriali del nord-est, vitali per controbilanciare la prevalenza repubblicana in altre parti dello stato. Ma niente di questo sarebbe sufficiente, senza Cleveland.

La città bagnata dal Lago Erie che Alexis de Tocqueville battezzò “The Forest City”, come molte città del Midwest, è in declino ormai da decenni. Quella che copre la maggior parte della contea di Cuyahoga è un’area urbana praticamente distrutta dal “white flight”, la fuga della popolazione bianca verso i sobborghi, che ha inflitto un colpo durissimo da cui la città non si è mai ripresa del tutto. Cleveland non è una città tradizionalmente “liberal” come Seattle o Manhattan, ma il voto democratico è spinto dal potere esercitato dai sindacati dell’industria siderurgica e dalla numerosissima comunità afro-americana. È quasi inutile sottolineare l’impatto della candidatura di Obama su una realtà di questo tipo. Un problema che potrebbe affliggere i democratici nei prossimi anni è il progressivo invecchiamento delle loro roccaforti. Cleveland, come anche Toledo e Akron, perde popolazione ormai dagli anni ’70. Senza contare che la presa del Partito democratico sulla working-class bianca sta lentamente affievolendosi. Sotto il profilo culturale, un lavoratore della Rust Belt ha molto più in comune con un redneck del sud che con un ambientalista della East Coast. In West Virginia, questi elettori hanno già abbandonato in massa i democratici. Per l’Ohio potrebbe essere solo una questione di tempo, anche se non è certo Mitt Romney il candidato ideale per attrarre questo segmento della popolazione.

Per fortuna dei democratici, c’è una città che contraddice integralmente questo trend generale. Columbus, nella parte centrale dello stato, è un’area urbana in rapida espansione che negli ultimi anni – un po’ come Fairfax County in Virginia – si sta spostando sempre di più a sinistra. In questo caso ci troviamo di fronte a un voto d’opinione “liberal” diffuso più che al risultato della “political machine” democratica. Ma a Columbus ci sono abbastanza elettori per spostare a sinistra l’ago della bilancia in Ohio: nel 2008, nella contea di Franklin, hanno votato in 560mila e il vantaggio di Obama è stato superiore al 20% (nel 2000, Bush e Gore erano praticamente alla pari).

Se le zone dell’Ohio strutturalmente favorevoli ai democratici sono abbastanza semplici da identificare nel “7” descritto prima, la base elettorale repubblicana si estende su un numero maggiore di contee a est, a sud e nella zona centrale dello stato. Si tratta però di aree in gran parte rurali e scarsamente popolate. Storicamente, l’eccezione è rappresentata da Cincinnati e dai sobborghi che si estendono fino a Dayton. Il 2008, però, rappresenta l’eccezione a questa eccezione, visto che Obama riesce a vincere a Cincinnati e a limitare i danni nei suoi sobborghi. Un cambiamento definitivo? Niente affatto, visto che complicare ulteriormente la questione ci si sono messe le elezioni di mid-term del 2010, vinte di misura (+2%) dal repubblicano John Kasich nei confronti del democratico Ted Strickland.

In quasi tutte le sfide del 2010, le performance democratiche hanno ripercorso fedelmente – anche se in misura quantitativamente più modesta – quelle del 2008. Se una contea tradizionalmente democratica era rimasta fredda nei confronti di Obama (il sud-ovest della Pennsylvania, per esempio), il trend è continuato anche nel 2010. Se invece Obama era riuscito a sfondare in zone tradizionalmente repubblicane (le aree urbane di Houston o Salt Lake City), i democratici sono andati benino anche alle elezioni di mid-term. L’Ohio, nel 2010, è stato una macroscopica eccezione a questa tendenza: Kasich ha vinto con una mappa molto simile a quelle degli anni ’90 (ma anche a quelle del 1976 o del 1940), confermando un pattern ormai consolidato da più di tre generazioni. Strickland, per esempio, è andato bene nelle contee del sud-ovest che fanno parte integrante della Appalachian America, una delle macro-regioni in cui Obama ha avuto più difficoltà. Ma ha perso nettamente terreno a Cincinnati, che è tornata a votare repubblicano.

Questo concatenarsi di trend ed eccezioni vistose a questi stessi trend rende molto difficile azzardare una previsione elettorale in vista delle presidenziali di quest’anno. All’inizio di ottobre, il vantaggio di Obama su Romney nei sondaggi sembrerebbe mettere il presidente al riparo da ogni sorpresa. Ma è davvero ipotizzabile una performance democratica superiore a quella del 2008? Forse i problemi di Obama con la “white working-class” sono stati sopravvalutati. E di sicuro gli spot negativi che hanno perseguitato Romney sul suo passato alla Bain Capital hanno avuto un impatto superiore a quello raggiunto in altri stati. Il bailout dell’industria automobilistica, poi, è percepito più positivamente che altrove, visto che in Ohio quasi il 15% dei posti di lavoro sono in qualche modo collegati con la “auto industry”. Ma questo, per Obama, vale davvero 4-5 punti percentuali in più rispetto al 2008?

I repubblicani sono convinti del contrario. E sbandierano il dato degli elettori registrati nel Buckeye State, che sono circa mezzo milione in meno di quelli di quattro anni fa. La maggior parte di questi “elettori scomparsi” abitano nella contea di Cuyahoga (Cleveland) e in quella di Franklin (Columbus), dove nel 2008 il vantaggio di Obama su John McCain è stato abissale.

Questa guerra di cifre (sondaggi contro elettori registrati) non riguarda solo l’Ohio, ma è il vero nodo da sciogliere per valutare i rapporti di forza tra i due partiti e i loro due candidati alla presidenza. Per essere riconfermato alla Casa Bianca, Obama ha bisogno di avvicinarsi il più possibile al risultato del 2008, soprattutto a livello di “turn-out”. Da parte loro, i repubblicani cercano di sfruttare l’onda lunga del 2010, confidando in un certo grado di “depressione” da parte di chi, quattro anni fa, aveva creduto nel “change” obamiano. Quando un “incumbent” si presenta di fronte agli elettori, indecisi e indipendenti ad oltranza contano solo marginalmente. A vincere sarà chi riuscirà a motivare – e portare alle urne – la propria base elettorale. 

(11/Fine)

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