Il dilemma del GOP
Tutte le analisi sulla vittoria di Obama che puntano l’indice sulla debolezza intrinseca della candidatura di Mitt Romney, sugli errori di comunicazione del GOP, sull’eccezionalità irripetibile della figura di Barack Obama, sull’effetto rivitalizzante che ha avuto Sandy per l’incumbent, o sull’influenza dei media, sono senz’altro fondate, colgono aspetti importanti, ma tutto sommato congiunturali delle presidenziali 2012, e rischiano quindi di assecondare uno stato di “denial” nel campo conservatore, persino consolatorio: per tornare alla Casa Bianca nel 2016 basterà presentare un candidato meno “bostoniano”, meno freddino, capace di scaldare i cuori e le menti della Right Nation, e il limite dei due mandati farà il resto (difficilmente i Democratici riusciranno a tirar fuori dal cilindro uno “special one” come Obama).
E’ comprensibile: più tranquillizzante sedersi in riva al fiume aspettando che l’eccezione Obama passi, come un uragano. Peccato che potrebbe non bastare. Non negare i dati strutturali della vittoria di Obama è invece il primo passo per porvi rimedio. Nella sua rielezione si intravedono mutamenti profondissimi nella composizione e nella mentalità – quindi demografici ma anche ideali e politici – dell’elettorato americano, molto diverso da quello del 2004. Il che è molto più terrificante (dal mio punto di vista di liberista) della semplice idea che Romney fosse il candidato sbagliato e Obama troppo carismatico ed hollywoodiano per essere battuto. Ma è Obama ad aver cambiato connotati all’America, o lui stesso è il prodotto di questo cambiamento? Probabilmente entrambe le cose insieme.
Due, a mio avviso, i dati strutturali da valutare, ovviamente correlati tra di loro: i cambiamenti demografici e la clamorosa smentita del motto “It’s the economy, stupid”. Nel 2008 Obama ha rappresentato un “esperimento” eccitante anche per molti elettori moderati e centristi, che l’hanno portato alla Casa Bianca sull’onda di uno spirito bipartisan. In questi quattro, duri anni di presidenza è emerso il lato più ideologico e “partisan” di Obama, che probabilmente ha contribuito ad alienargli gran parte di quegli elettori (circa 7 milioni i voti in meno rispetto al 2008). Romney li ha in parte recuperati (prevalendo 50 a 45 tra gli indipendenti), ma non gli è bastato per avere la meglio perché il turnout democratico è stato nettamente superiore a quello repubblicano (38% e 32%). E’ storica, dunque, la vittoria di Obama, perché ottenuta mobilitando quasi esclusivamente forze di sinistra e minoranze, niente a che vedere con la “terza via” centrista di Clinton.
Nel voto popolare Obama ha staccato Romney del 2,4%, circa 3 milioni di voti, più o meno lo stesso distacco tra Bush e Kerry nel 2004. Ma mentre allora quel consenso valse a Bush “solo” 286 voti elettorali, oggi è bastato ad Obama per conquistarne ben 332. Come ha ben spiegato il blog The White City, se con il passare degli anni i repubblicani hanno bisogno di un margine sempre più ampio dei democratici nel voto popolare per arrivare alla fatidica quota 270, ciò significa che a causa dei cambiamenti demografici gli stati in bilico, quelli che decidono l’elezione, tendono sempre di più a garantire ai democratici (che vincano o che perdano il singolo stato) percentuali superiori alla loro media nazionale.
Certo, il distacco negli stati chiave è ancora minimo, e indurrebbe a pensare che bastino lievi spostamenti di voti perché tutti i discorsi sulla nuova geografia etnica vadano a farsi benedire nel novembre 2016, ma se non si valuta nella giusta misura la tendenza in atto in quegli stati – i Dem che ottengono percentuali superiori alla loro media nazionale – il rischio è di incappare in una pericolosa illusione ottica: il lieve spostamento di voti, infatti, potrebbe continuare a premiare il candidato democratico.
La forza di Obama sta nell’aver dato rappresentanza a una parte di America che fino ad oggi era rimasta divisa e lontana dalle urne e che oggi, invece, si risveglia unita e maggioritaria nel paese. Una inedita coalizione di minoranze: tutte le minoranze non bianche e quei bianchi liberal che considerano le disparità sociali fra le etnie un peccato originale della schiavitù e della segregazione da cui solo attraverso l’assistenza pubblica e le affirmative action l’America si può mondare. In effetti il presidente ha letteralmente surclassato Romney non solo nel voto femminile (+12 punti) e dei giovani (+24 punti), ma anche nel voto degli afroamericani (+87), degli ispanici (+40) e degli asiatici (+49). Presso questi due ultimi gruppi etnici Romney ha fatto addirittura peggio di McCain (distanziato rispettivamente di 36 e di 27 punti).
E pensiamo a quanta poca sintonia c’è tra afroamericani, ispanici e asiatici, e a quante differenze ci sono sia sull’economia che sulle cosiddette social issues (ad es. aborto e unioni gay) tra questi gruppi etnici e all’interno di ciascuno di essi. Eppure tutti e tre si sentono tutelati in tal misura da Obama da riversarsi ai seggi per votarlo. Com’è stato possibile? La sensazione è che la diffidenza reciproca e le profonde differenze sulle varie issues siano state in parte attenuate giocando la “carta razziale”, cioè facendo leva sul risentimento e il vittimismo, l’unico tratto che accomuna gli appartenenti a ciascuna minoranza.
E qui veniamo al secondo dato strutturale. Una rielezione nonostante dati macroeconomici così avversi, soprattutto la disoccupazione all’8%, deve far riflettere sul reale peso dell’economia nelle scelte dell’elettorato. Da una parte, come abbiamo detto, le minoranze hanno visto nel voto a Obama un’occasione di riscatto, la prospettiva di politiche compensative a risarcimento di una discriminazione che in pochi probabilmente hanno provato di persona, ma che ciascuno avverte come un’ingiustizia storica subita in quanto etnia, ed ecco quindi che hanno pesato meno lo stato dell’economia nel suo complesso, e persino la condizione economica personale. Dall’altra, l’economia continua a contare ma in modo diverso rispetto al passato. Chi ha perso il lavoro può contare su sussidi più generosi e chi sta per perderlo sul salvataggio della sua industria, come in Ohio; tra no tax area e detrazioni molti americani non avvertono il peso del fisco, quindi sono meno preoccupati dei costi del welfare, della sanità pubblica, di cui vedono solo il lato rassicurante e umano. E’ un approccio ai temi economici davvero più “europeo”, più orientato alle protezioni sociali che non al dinamismo tipico dell’economia americana: spaventano meno il dato del Pil o della disoccupazione, l’importante è sentirsi tutelati dallo Stato. E senz’altro le variazioni demografiche – l’incidenza sul voto di afroamericani e ispanici, più inclini all’assistenzialismo – e le politiche obamiane stanno contribuendo alla diffusione di questo modo “europeo” di guardare all’economia. La retorica dei Democratici secondo cui si può finanziare uno stato sociale generoso a spese dei ricchi e senza fiaccare l’economia sembra avere sempre più presa. Anche se si rivelerà ben presto un’illusione, ci vorrà del tempo per aprire gli occhi: noi europei ancora non ci siamo riusciti.
“It was not the economy, stupid” è dimostrato anche dalla rilevanza di temi quali l’immigrazione, l’aborto, le unioni gay, che si sono rivelati decisivi, ma in negativo, per Romney. L’hanno reso invotabile anche da parte di elettori critici con Obama sull’economia, ma che si sentono culturalmente troppo lontani da un GOP drammaticamente arretrato su questi temi, ormai chiave per far breccia presso elettorati determinanti come gli ispanici e le donne.
Insomma, non si può non prendere almeno in considerazione l’ipotesi che la coalizione progressista messa insieme nel 20008 e nel 2012 da Obama possa costituire una “maggioranza permanente”, cioè in grado di sopravvivergli politicamente e di aprire un ciclo, come suggeriscono Sam Tanenhaus nel suo “The death of conservatism” e Ruy Teixeira in “The emerging democratic majority”. Prima di Obama l’unico presidente del II dopoguerra ad essere rieletto nonostante la disoccupazione oltre il 7% fu Reagan nel 1984. Un presidente che guarda caso fu capace di forgiare una coalizione conservatrice che avrebbe segnato culturalmente due decenni, gli anni ’80 e ’90, e retto per un soffio fino al secondo mandato di George W. Bush, nonostante fossero già in atto i cambiamenti demografici che vediamo esplodere oggi. Più saggio, quindi, non escludere che Obama possa rivelarsi il Reagan dei democratici, che insomma possa aver aperto un nuovo ciclo destinato a non esaurirsi con il suo secondo mandato.
Nel 1992 i Democratici tornarono alla Casa Bianca con Clinton, vagheggiando di “terza via” e governando dal centro un paese in maggioranza conservatore. Come i Democratici di allora anche il GOP oggi è di fronte a un dilemma simile: come reagire all’emersione in superficie di questo popolo di sinistra? Inseguirlo, smussando i propri angoli sulle social issues e attenuando la propria rigidità in tema fiscale, ma rischiando di perdere la Right Nation, o tenere il punto, se non radicalizzarsi, rischiando però di perdere indipendenti e moderati? Nel primo caso si tratta di trovare un candidato vincente per riconquistare la Casa Bianca nel 2016, ma inevitabilmente dal profilo, e su una piattaforma, più centrista, cioè più disponibile a soluzioni di compromesso con le istanze welfariste, che a quanto pare sempre più americani e nuovi immigrati non vedono come fumo negli occhi, e più aperta su immigrazione e diritti civili. Nel secondo di mantenere saldi e non negoziabili i propri principi, nella speranza che il nuovo ciclo politico passi in fretta e il riflusso spinga gli americani di nuovo a destra.
Il dibattito nel GOP è aperto: a cosa è dovuta la sconfitta? S’insinua il dubbio che sia sbagliato il messaggio, ormai non in sintonia con una popolazione in rapido mutamento, e che quindi occorrano cambiamenti fondamentali nella linea politica. Nulla di drammatico, sembra però rispondere la maggior parte del partito, soprattutto i governatori, più sicuri della sintonia con i propri elettori e già proiettati verso il 2016: candidati scadenti, errori di comunicazione e insufficienti sforzi per portare gli elettori alle urne. «E’ essenziale rimanere fedeli a ciò che siamo – spiega il governatore della Virginia Bob McDonnell – dobbiamo capire come rendere i nostri principi più interessanti agli elettori emergenti, ma se abdichiamo ad essi diventiamo un’entità molto diversa».
Un problema di identità, o di comunicazione, dunque? Piegarsi alla nuova demografia o insistere nel tentativo di avvicinare i nuovi elettori ai principi conservatori? Nel primo caso i Repubblicani temono di presentarsi come “cripto-Democratici”. E resterebbe un problema, diciamo, di marketing, di brand: se anche si convincessero ad offrire un prodotto politico più simile a quello dei Democratici, perché gli elettori dovrebbero preferire la copia all’originale? E se anche preferissero la copia, e un repubblicano tornasse alla Casa Bianca da liberal moderato, l’America non sarebbe comunque più la stessa. «L’America non ha bisogno di due partiti liberal», avverte il governatore della Louisiana Bobby Jindal. Fra quattro anni gli elettori potrebbero preferire una versione più edulcorata delle politiche obamiane, ma anche sviluppare una totale repulsione verso di esse.
Entrambe le strade presentano quindi degli inconvenienti. Proposte politiche specificamente rivolte verso le etnie emergenti potrebbero non bastare, ed è vero che in teoria il libero mercato crea un contesto economico più meritocratico, che offre a tutti, minoranze comprese, l’opportunità di migliorare il proprio status, ma restano pur sempre allettanti politiche che promettono (che mantengano è tutt’altra storia) un’esistenza meno ambiziosa ma comunque dignitosa con il minimo sforzo. Una via di mezzo per il GOP potrebbe consistere nell’ammorbidire la propria posizione sull’immigrazione, col rischio però di alimentare ancor più rapidamente il serbatoio di voti democratico, e aggiornarla sull’omosessualità, mantenendo invece ferma la linea di politica fiscale. Fiducia nell’impresa individuale e Stato leggero sono infatti le fondamenta dell'”eccezionalismo” Usa e del loro potere economico, il resto – forse – è aggiornabile.