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Rangoon calling
Barack Obama continua a sbagliare in politica estera. Negli ultimi giorni si è recato in Birmania per incontrare Aung San Suu Kyi, dal 2010 libera dagli arresti domiciliari. È stata la prima visita di un presidente americano nel paese del sud-est asiatico e, nonostante l’importanza strategica della visita, le sbavature non sono mancate.
Finita la campagna elettorale, la musica non cambia. A urne chiuse, gli errori commessi negli ultimi quattro anni restano. Il “leading from behind”, la primavera araba, l’ultimo imbarazzante episodio di Benghasi: tutto lascia intendere l’evidenza delle sue mancanze. Obama non ha sbagliato tutto, ma ciò che di concreto ha realizzato non è altro che l’ultimo tassello di una politica avviata dal suo predecessore G. W. Bush. La continuità si è rivelata la sua arma migliore.
Arriva a Rangoon e visita la casa-prigione della Suu Kyi. La ringrazia per “la sua straordinaria ospitalità, per l’esempio che è stata per tutti quelli che lottano per la democrazia”. Riempie la Birmania di complimenti, parlando di un popolo affamato di prosperità e benessere. Sostiene che “avranno un ruolo chiave nel futuro”. Poi sbagli clamorosamente il nome dell’attivista per i diritti umani più famosa al mondo. Distorce le lettere, parla di Aung Yan Suu Kyi, mentre migliaia di persone lo attendono nelle strade per festeggiarlo. Lei non lo corregge mai. Il paese intero si mobilita per l’uomo più potente del mondo. La stampa da notizia di persone che ritardano ad andare a lavoro o si fermano nelle piazze. È il segnale che la gente preferisce l’America all’incognita cinese, al netto degli interessi economici.
Il presidente Usa commette un altro errore. Chiama lo stato Myanmar, non Birmania come vuole la tradizione americana. Gli States non riconoscono la nuova denominazione attribuita dal regime militare: lo stesso che per anni ha tenuto “in catene” la stessa San Suu Kyi. Dopo averla incontrata Obama fa visita al nuovo presidente. Sbaglia clamorosamente anche questo nome. Il sonno perso in campagna elettorale non sembra avergli fatto molto bene. Thein Sein diventa presidente Sein, dimenticando la prima parte del nome. Niente di preoccupante, anche se la prima visita ufficiale voluta da Washington nel paese poteva essere preparata con qualche accorgimento in più. La Cina è a un passo e non fa ridere.