Il Natale di McCarthy

Non ha nulla di natalizio un libro nel quale uno dei personaggi che i protagonisti, padre e figlio, incontrano sotto un cielo di cenere e polvere dice “Dio non c’è e noi siamo i suoi profeti”. Accade in “The Road”, “La strada”, il romanzo con il quale l’autore americano Cormac McCarthy nel 2007 ha vinto il Premio Pulitzer. “There is no God and we are his prophets”, recita un vecchio che si muove senza meta e che pare prossimo alla fine, mentre il padre ha in mente per il suo ragazzo almeno un punto di riferimento, il mare, dove sperare di sopravvivere al cataclisma che ha colpito il mondo. Sembra di rileggere “Suttree”, opera quasi autobiografica dello scrittore del 1979 dove in un dialogo salta fuori che “ho sempre pensato che esiste un Dio, solo che non mi è mai piaciuto”.

Ma l’ultimo libro di McCarthy dopo la pubblicazione è stato analizzato nei suoi tratti spirituali, che si rincorrono lungo le pagine e che fanno cambiare idea: potrebbe essere un testo troppo duro da digerire mentre si abbelliscono le case con alberi e presepi e mentre si accendono le luminarie per le strade e, anche sforzandosi, si prova a pensare ad altro che non siano i guai del resto dell’anno. Perché la battuta sull’esistenza o meno di Dio potrebbe benissimo significare che effettivamente non esiste, anche se ci comportiamo come se ci fosse oppure l’esatto contrario, che Dio c’è, ma viene negato da come si comportano i suoi figli. Il problema con gli scrittori è che l’interpretazione delle parole andrebbe chiesta a loro direttamente, evitando accuratamente di affidarsi ai critici che spesso hanno la pretesa di concludere “così è e altrimenti non potrebbe essere”.

“The road” è la sorte di un genitore che tenta di preservare il figlio dalla crudeltà e al quale insegna a cavarsela e affida una pistola carica, ordinando di spararsi un colpo in testa nel caso si presentasse il rischio di finire preda di bande di cannibali che si muovono per la landa desolata, dove il cibo scarseggia. Non accadrà, i due arriveranno al mare, grigio come il resto della terra, gelido e in balìa della disperazione e dove il padre troverà la morte, braccato dalla malattia e dalla fatica insopportabile. Nei monologhi con i quali resiste alla disperazione, ma che suonano come momento di smarrimento totale, si chiede se ci sia qualcuno a vegliare su loro: “Credi che i tuoi padri ti stiano guardando? Che ti valutino nel loro libro mastro? Con quale criterio? Non c’è alcun libro e i tuoi padri sono morti sotto terra”. Eppure, prima di chiudere gli occhi definitivamente, al figlio che vorrebbe morire con lui, lascia un ultimo compito: “Devi portare il fuoco. E’ dentro di te, c’è sempre stato. Lo posso vedere”. Non sono le parole di un essere umano convinto che il senso si esaurisca lì, in quell’ultimo attimo.

In “The Road” non ci sono sorrisi e non è previsto un lieto fine, l’orfano viene accolto da un’altra famiglia di sopravvissuti e riprenderà da capo a sfidare il male per stare al mondo, ma è quando sembra che anche il suo destino sia segnato dalla scomparsa di chi l’ha protetto fino a quel momento che arriva un Natale pure per McCarthy. Il padre osserva il figlio davanti ad un fuoco: “Guardati intorno. Non c’è profeta nella luna storia della terra a cui questo momento non renda giustizia”. Tra allucinazione e parole senza senso, l’uomo vede nel bambino il bene. Che è quello che accade in una particolare notte di dicembre che coincide con il periodo in cui culture antiche celebravano il solstizio invernale e la luce, simbolo di rigenerazione. McCarthy lo fa a modo suo, con una storia senza tempo e trascorrere di giorni. O forse è soltanto una cattiva interpretazione. 

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