Chi ha paura di Rand Paul
Se i media liberal iniziano a concentrare la loro attenzione su un repubblicano, a giudicarlo un “caso”, a prenderlo di mira, cosa vuol dire? Il senatore Rand Paul, figlio dell’ex candidato alle primarie Ron, è al centro dell’attenzione. E’ il suo momento. La scoperta della rete di spionaggio informatico “Prism” dà ragione ai libertari più allarmisti: lo Stato è il tuo peggior nemico e ti spia notte e giorno, anche se non sei sospetto di terrorismo.
Il ritiro dall’Afghanistan e l’avvio dell’umiliante dialogo con i Talebani dopo 12 anni di intervento militare, è un’altra drammatica conferma delle idee libertarie contro l’interventismo e soprattutto contro il “nation building”. Lo scandalo dell’Irs (agenzia delle entrate), che discriminava e spiava i membri del Tea Party, poi, è la miglior dimostrazione possibile di come la tassazione sia una forma di repressione.
I liberal, da sempre difensori dei diritti civili, dovrebbero essere molto contenti della comparsa, sul fronte di destra, di un idee forti in difesa dell’individuo e della sua libertà. Rand Paul è anche molto più aperto, rispetto agli altri repubblicani, sui matrimoni gay (massima libertà di legislazione dei singoli stati), sull’immigrazione (più libertà di entrare negli Usa per lavorare e produrre), sulle libertà civili (massima protezione della privacy), sulla pace (fine degli aiuti militari all’estero).
Invece di ringraziare, i liberal guardano Rand Paul con un misto di preoccupazione e disgusto. Prova ne è un articolo comparso sul New York Magazine a firma di Jonathan Chait. Abbiamo scelto questo articolo perché è il più rappresentativo, oltre che essere l’unico ad addentrarsi nella filosofia politica di Rand Paul.
Chait punta il dito sulla dichiarazione: “Non credo fino in fondo alla democrazia. Ci ha regalato Jim Crow”. Scandalo. Guai a dire che si è contro la democrazia. Ma l’esempio è calzante. Benché Chait scriva che Rand Paul fa confusione con la storia, il suo contro-argomento non funziona. Perché afferma che gli stati che avevano adottato le Leggi Jim Crow, che istituivano la segregazione razziale, fossero “non democratici”. Invece questi lo erano, da tutti i punti di vista. Istituzionalmente parlando, erano democratici: la gente votava le loro assemblee legislative. Politicamente votavano a maggioranza i Democratici, che nel Sud erano tutti favorevoli alla segregazione razziale, almeno fino agli anni ’50 del secolo scorso.
Il giornalista, allora, cambia argomento, “Non è l’orrore della segregazione che motiva la sfiducia di Paul nella democrazia. E’ semmai l’idea che in democrazia possa votare a maggioranza per spogliare la minoranza delle sue proprietà”. E la logica, a dire il vero, non è dissimile a quella della segregazione votata dalla maggioranza.
La classe politica, non solo americana, ma in tutto il mondo democratico, viene votata, sostanzialmente, da una maggioranza che vuole vantaggi in termini di servizi e strutture. A spese del contribuente, dunque anche della minoranza che viene spogliata delle sue proprietà tramite la tassazione. Con la tassazione progressiva, la minoranza più ricca (che spesso e volentieri coincide con la minoranza più produttiva) viene spogliata da maggioranze che predicano la redistribuzione e chiedono più sussidi e salari pubblici. Si crea, in questo modo, una nuova forma di discriminazione, accompagnata dalla demonizzazione del “ricco”.
“Rand Paul, come suo padre, è profondamente influenzato dalla filosofia politica ed economica di Ayn Rand – scrive Chait , spiegando ai suoi lettori (presumibilmente anti-randiani, o ignari della sua filosofia) che: “La filosofia della Rand è una sorta di marxismo alla rovescia, che immagina la lotta politica come una lotta fra virtuosi produttori che creano tutta la ricchezza e i parassiti che cercano di sfruttarli. (Marx credeva che i lavoratori producessero tutta la ricchezza e i capitalisti gliela rubassero; la Rand credeva esattamente il contrario)”. In questa caricatura della filosofia randiana, il giornalista del New York Magazine dimostra di non aver colto una differenza fondamentale.
Nella teoria libertaria della lotta di classe, condivisa da Ayn Rand, i lavoratori e gli imprenditori sono sulla stessa barca. L’interesse dell’operaio e quello del manager coincidono. Il nemico è il non-produttore, lo Stato, che sottrae risorse ai lavoratori (tutti i lavoratori) tramite la tassazione. Lo statalismo, come notava l’ex candidato repubblicano Mitt Romney (che Chait, puntualmente, ricorda quale esempio di logica perdente) è sostenuto da una classe numericamente crescente di non-produttori: tutti coloro che vivono sulle tasse, di sussidi e stipendi pubblici. Oltre che da imprenditori che preferiscono avvalersi della protezione statale, più che basarsi sulla loro produzione.
I liberal temono sempre maggiormente questa filosofia. Nella parole di Chait: “La diffusione dell’ideologia randiana del Gop è una valida spiegazione su come Paul sia asceso rapidamente dal suo piccolo territorio al suo status attuale di papabile candidato presidenziale”. L’articolo è scritto in tono di scherno e aria di sufficienza. Ma la teoria libertaria della lotta di classe è proprio l’arma culturale che può smontare completamente l’aura di misticismo che circonda l’intervento pubblico, facendo vedere quello che è in realtà.
Il problema, per Rand Paul, viene anche da destra. Sulla National Review, un articolo a firma di Henry Olsen tenta di spiegare che il libertarismo sia una tentazione a cui resistere, paragonata alla tentazione dell’Anello nel classico (conservatore) il Signore degli Anelli di JRR Tolkien. Teoricamente destinato a far vincere, se solo indossato, porta invece alla dannazione. Dannazione elettorale, più ancora che morale, in questo caso. Perché Olsen, esempi storici e statistici alla mano, dimostra come il libertarismo non sia appetibile per la maggioranza. I sondaggi che incoraggiano l’elettorato libertario, sono semplicemente letti male.
Confondono, nella macro-categoria di “indipendenti” che sono allo stesso tempo “progressisti nelle libertà personali” e “conservatori nelle libertà economiche”, due distinte categorie di elettori: i libertari propriamente detti (circa il 10% di elettori) e i “post-modernisti” (più del doppio). Questi ultimi sono ecologisti, votano Obama, vogliono l’Onu e sono favorevoli alla sanità pubblica. Eppure, nei sondaggi con domande generiche, risultano coincidere con i libertari, che invece sono contrari a tutto quanto detto sopra. Olsen, insomma, è convinto che indossando l’anello libertario proposto da Rand Paul, si finisca per perdere. Ma i tempi cambiano, gli americani anche e lo statalismo è sempre più odioso. Un libertario nel 2016, più che un tentatore, potrebbe essere visto come un liberatore. Anche da quegli indipendenti che, ancora nel 2012, avevano votato Obama.