Giù la statua-mito
Chi non rimpiange John Fitzgerald Kennedy. Solo in Italia gli sono state dedicate 1082 vie e piazze: un comune su otto lo ha voluto ricordare solennemente. Nessun altro presidente americano gode di altrettanta fama nel nostro Paese. Negli Usa gli hanno dedicato l’aeroporto internazionale di New York, il JFK, che assieme alla Statua della Libertà è il biglietto da visita per chiunque, dall’Europa approdi al Nuovo Mondo. La fama di Kennedy è così meritata? Il presidente ebbe la sventura di essere assassinato prematuramente a Dallas esattamente cinquant’anni fa, in un attentato i cui contorni sono tuttora oscuri e ancora alimentano numerose teorie del complotto: non si sa chi fossero i mandanti, chi gli esecutori (siamo sicuri che Lee Oswald, il cecchino di Dallas, fosse solo?) e quale il movente.
Questo delitto, che stroncò la vita del presidente fu una tragedia, ma anche, paradossalmente, una fortuna per il suo mito: Kennedy non poté essere ritenuto responsabile per le politiche che aveva appena avviato e che avrebbero dato i loro frutti solo sotto il suo successore, il presidente Lyndon Johnson. Vista a mezzo secolo di distanza, le politiche di Kennedy generarono più problemi che progressi, sia negli Usa che nel resto del mondo. Come dimenticare la guerra del Vietnam? Fu Kennedy ad avviarla. E a darle quella piega di intervento-non-intervento che portò alla sconfitta.
Il problema, per il presidente, era come fermare la continua infiltrazione comunista in un Paese remoto e alleato, il Vietnam del Sud. Intervenire con il pieno uso della forza militare, non escludendo un’invasione del Vietnam del Nord comunista (come gli Usa avevano fatto in Corea dieci anni prima) avrebbe comportato il rischio di una guerra con la Cina e l’Urss. Non intervenire avrebbe comportato il rischio opposto: far percepire al mondo l’idea di un’America debole che rinuncia a proteggere i suoi alleati, in pieno confronto militare con il blocco comunista. La via di mezzo scelta da Kennedy, inviare aiuti materiali e consiglieri militari al Vietnam del Sud per una guerra puramente difensiva, riuscì a riassumere il peggio delle due opzioni: coinvolse gli Usa nel conflitto, pur senza avere un piano di vittoria.
Peggio ancora: la volontà kennediana di rendere il Vietnam del Sud una vera democrazia, rovesciando il dittatore Ngo Dinh Diem (ucciso 20 giorni prima di Kennedy) privò il Sud della sua unica guida militare e politica possibile. Nei dieci anni successivi, l’alleato del Sudest asiatico non riuscì più a darsi un governo stabile. A pagare le conseguenze di queste scelte furono Lyndon Johnson e circa 50mila americani morti nel lungo conflitto. Kennedy è ricordato tuttora in Europa per il suo famoso discorso contro il Muro di Berlino (“Siamo tutti berlinesi, ora”). Ma quel muro fu costruito dalla Germania comunista, col beneplacito dell’Urss, dopo un anno di “distensione” voluta da Kennedy, che inizialmente si fidava dei falsi segnali di apertura del nuovo dittatore sovietico.
Fu soprattutto la passività americana, la sua fiducia eccessiva, che spinsero Chrushev ad alzare la posta, riprendendo i test nucleari nell’atmosfera (fra cui quello della Tsar Bomba, il più potente test atomico della storia) e a trasformare la debole Germania orientale in una grande prigione a cielo aperto. Un problema analogo di memoria lo abbiamo anche per la crisi dei missili di Cuba. “Kennedy salvò il mondo” costringendo i sovietici a ritirare i loro ordigni dall’isola di Castro, nell’ottobre del 1962, senza sparare un colpo. Verissimo. Ma come si arrivò a quella crisi? Con una politica su Cuba a dir poco “distratta”.
Dopo la presa del potere da parte di Fidel Castro nel 1959, l’amministrazione Eisenhower aveva iniziato a pianificare il regime change, perché non era tollerabile un regime comunista ostile alle porte dell’America. Kennedy ereditò quei piani e ne fece un cattivo uso. Appoggiò con riluttanza lo sbarco dei dissidenti cubani nella Baia dei Porci (nell’aprile del 1961), mentre sull’isola era in corso la più grande insurrezione anti-castrista dai tempi della rivoluzione. Ma poi negò il necessario sostegno militare ai suoi alleati. Nel 1961 sarebbe bastato un piccolo spintone per buttar giù il debole e isolato regime di Castro, un anno dopo quest’ultimo era diventato un potente satellite sovietico. Ed era in grado di ospitare i missili dell’Urss, puntati sulle città americane.
La crisi dei missili di cuba fu dunque il prodotto di un errore di sottovalutazione. Venne risolto pacificamente, ma ad un prezzo politico molto alto: il ritiro dei missili statunitensi dalla Turchia e la garanzia di non invadere Cuba. Castro è ancora al potere grazie a quel compromesso. In politica interna, Kennedy viene ricordato soprattutto per l’emancipazione degli afro-americani. Tra parentesi: la sua fu una svolta solo in ambito democratico (che nel Sud era tradizionalmente segregazionista), perché i repubblicani, nei due decenni precedenti, erano già emancipazionisti e il presidente Eisenhower fu il primo protagonista dell’emancipazione.
Benché in Italia si dica il contrario, Kennedy fu dunque il democratico che fece proprie le tesi repubblicane in materia razziale. Ma anche qui, stando alle politiche poi attuate da Johnson, fu all’origine di un grande equivoco: quello della discriminazione positiva (“affirmative action”), sussidi, privilegi, diritti speciali di assunzione, quote “colored” e altre misure che tuttora mantengono le minoranze statunitensi in una condizione di auto-ghettizzazione, tutt’altro che integrate. Quanto all’espansione del welfare state, voluta da Kennedy e attuata in gran parte da Johnson, è già stato detto molto, ma mai abbastanza: il Medicare (il programma di assistenza sanitaria per gli anziani) è attualmente una delle principali fonte di deficit pubblico negli Usa.
La politica abitativa dell’amministrazione Kennedy diede il là alle strategie fondate sul presupposto “una casa per cittadino”, poi amplificate dalle amministrazioni successive e all’origine della bolla edilizia che portò alla crisi del 2008. La corsa allo spazio resta il fiore all’occhiello degli anni di Kennedy. Fu grazie al programma Apollo, da lui avviato nel 1961, che gli americani sbarcarono sulla Luna, sei anni dopo la sua morte. Ma anche questo storico successo, che è e resta una pietra miliare nella storia dell’uomo, ebbe il suo rovescio della medaglia: comportò la cancellazione del programma di difesa anti-missile basata nello spazio (“Bambi”), una tecnologia in cui gli americani erano all’avanguardia e che avrebbe permesso di battere i sovietici nella corsa agli armamenti.
Si dovette attendere fino al 1983, quando Ronald Reagan era presidente, per assistere a una ripresa della ricerca in questo settore, ma nel frattempo era stato dato ai sovietici un ventennio di tempo per recuperare e colmare il gap con l’introduzione di ben 3 nuove generazioni di missili balistici intercontinentali. Insomma, fra occasioni sprecate e danni a lungo termine, cosa resta del mito di Kennedy? La sua gioventù, il suo sorriso, l’ottimismo che riuscì a infondere negli americani e negli abitanti del Mondo Libero in generale. Insomma: la sua immagine. E niente altro.