La fiaba di Madiba e della casa dei Bianchi
È difficile riuscire a riassumere tutti i commenti positivi e quei pochissimi negativi sulla figura di Nelson Mandela, morto il 5 dicembre 2013 all’età di 95 anni. Lo ricordano tutti per la sua tenacissima resistenza (27 anni di carcere e mai rinunciò alla sua lotta), per il suo impegno contro l’apartheid imposto dalla minoranza boera a tutto il Sud Africa, per essere stato il primo presidente democraticamente eletto di quella che sarebbe diventata una grande potenza economica. Insignito con il Nobel per la Pace nel 1993, assieme a De Klerk, per il loro accordo su una pacifica transizione del Sud Africa verso la democrazia, Mandela è letteralmente ricordato come un santo da destra a sinistra. Il conservatore Clint Eastwood ne ha fatto l’apologia nel film “Invictus”. La sinistra l’ha sempre trattato come un idolo. La Chiesa lo considera quasi un beato.
Tuttavia ci sono ombre in quel passato. C’è chi lo definisce “terrorista” e non ha tutti i torti: la sua carriera incominciò proprio nell’estrema sinistra terrorista del Sud Africa. C’è chi lo definisce “nemico”, anche qua non a torto: si alleò sempre con tutti i nemici delle democrazie occidentali: l’Urss, Fidel Castro, Arafat e Saddam Hussein furono tutti suoi compagni di strada. C’è chi lo definisce un dittatore (per lo meno all’interno del suo partito) e ripubblica su Internet le foto delle atroci esecuzioni dei deviazionisti e dissidenti, torturati e bruciati vivi in piazza dagli scagnozzi dell’African National Congress. È tutto vero, ma nulla riesce ad offuscare il fatto che Mandela sia riuscito a riportare il Sud Africa verso la democrazia in modo pacifico, senza vendette, senza imporre un regime. In Europa sarebbe normale: di transizioni pacifiche ne abbiamo viste molte in tutto l’Est europeo. Ma in Africa, il suo è un caso unico.
Il problema, però, è proprio questo: la transizione del Sud Africa alla democrazia è una buona o una cattiva notizia? Qual è il reale valore dell’eredità lasciata da Mandela?
Un punto di vista assolutamente inedito, per lo meno qui in Italia, è quello boero. Su un sito conservatore americano, Front Page Magazine, si trova, fra i commenti del forum, nascosto sotto la notizia della morte di Madiba (il nome africano di Nelson Mandela), un commento di tale “Jakareh”. Di solito, nelle discussioni su Internet (specie nei siti più politicizzati) leggiamo sequenze di insulti, elogi e insulti a chi elogia. Questa volta, invece abbiamo trovato un post interessantissimo che spiega bene, con una risata sardonica e una metafora esplicita, come possa essere letta la storia del Sud Africa e di Mandela fuori da qualsiasi mistificazione e luogo comune. Vale la pena di tradurla e leggerla per intero: «C’era una volta una famiglia chiamata Bianchi che decise di costruire una casa in un territorio molto soleggiato. Stavano facendo un gran lavoro, usando materiale di qualità e applicando tutte le migliori tecniche di costruzione. Vicino a loro abitava un altro clan, gli Swart. I membri di quel clan vivevano in buche scavate nella terra. Non erano neppure in grado di costruire una casa, né erano interessati ad impararlo. Quando gli Swart videro i Bianchi lavorare alla costruzione della loro casa, si arrabbiarono molto. Dicevano: “Tutta questa terra, nella sua totalità, deve essere nostra, perché qui dobbiamo combattere i nostri duelli e pascolare le nostre capre. Uccidiamoli tutti!”. Gli Swart attaccarono i Bianchi, ma benché soverchiati numericamente questi ultimi resistettero eroicamente e respinsero l’assalto. Benché sconfitti in questo scontro e feriti, gli Swart non cessarono mai di cercare di impedire ai Bianchi di costruire la loro casa. Lanciavano loro addosso pietre, si infiltravano di notte nel loro cortile e cercavano di bruciare tutto. Ma i Bianchi erano sempre vigili e gli Swart non ebbero successo.
«Alla fine, nonostante tutte le ferite e l’odio subiti, i Bianchi finirono di costruire la loro casa. Gli Swart la osservavano con meraviglia: era una magnifica e solida casa, decorata con fiori e tante belle cose. Gli Swart si rodevano per l’invidia perché sapevano che loro non sarebbero mai riusciti a costruire una casa come quella. Il leader degli Swart era chiamato Madiba ed era il più intelligente fra loro. Madiba disse ai Bianchi: “Ehi, quella casa è anche nostra. Noi siamo vissuti qui tutto questo tempo e sarebbe giusto che voi la dividiate con noi. E siccome siamo più numerosi noi rispetto a voi, siamo noi che dobbiamo decidere di chi sia la proprietà di quella casa.
«E i Bianchi dissero: “Non se ne parla nemmeno. Questa è casa nostra, noi l’abbiamo costruita. Dovete star fuori”. E per dimostrare coi fatti che dicevano sul serio, i Bianchi eressero un alto muro attorno alla casa, che chiamarono “muro di separazione”, per non permettere a nessuno degli Swart di entrare nella loro casa.
«Per un po’ di tempo le cose andarono così. Un giorno, tuttavia, i Bianchi ricevettero una visita di un lontano cugino. Questi disse loro: “Venendo qui abbiamo visto tutti quegli Swart seduti fuori dal vostro muro di recinzione. Uno di loro, chiamato Madiba, era molto gentile e ci ha detto che siete stati molto duri con tutti loro. Voi dovete permettere loro di entrare e condividere la vostra casa, che ha così tante stanze!” “Tu non capisci” risposero i Bianchi. “Noi non siamo affatto nelle loro grazie. Non hanno fatto nulla per aiutarci. A dire il vero ci odiano. Se li facciamo entrare, come minimo, ci faranno del male”.
«Arrabbiato per la risposta, il cugino se ne andò. Ben presto, i Bianchi realizzarono che non erano più invitati ad alcun ricevimento, né ad alcun incontro in famiglia. Anche se non capivano perché il loro cugino avesse preso la parte degli Swart, se ne fecero una ragione, tanto avevano tutto quel di cui c’era bisogno per vivere.
«Man mano che passava il tempo, i Bianchi che avevano costruito la casa invecchiarono e morirono. I loro figli e nipoti presero il loro posto. Questi non avevano mai combattuto personalmente ed erano stanchi di essere maltrattati e considerati dei mostri a causa del muro di cinta di casa loro, di non essere mai invitati alle riunioni familiari e mai a un ricevimento.
«I giovani Bianchi, con orgoglio, abbatterono il muro di cinta e dissero agli Swart: “Venite, entrate! D’ora in avanti questa è anche casa vostra!”
«Madiba fu il primo ad entrare in casa. Sorridente disse: “Grazie mille, fratelli miei! Ora siamo tutti fratelli! Ora, cari miei fratelli, andate a vivere tutti nello sgabuzzino delle scope. Il resto della casa spetta agli Swart che hanno atteso così a lungo prima di venire a vivere qui. Sono sicuro che voi riteniate giusto questo patto. E inoltre, cari fratelli, datemi le chiavi di casa».
E qui finisce la metafora, il resto è cronaca. I metodi pacificatori e riconciliatori di Mandela, che in questa fiaba boera è visto come un novello Ulisse con il suo Cavallo di Troia, sono finiti dal 1999. Lasciato il potere ai suoi successori dell’African National Congress, personaggi ideologizzati come Thabo Mbeki o decisamente violenti come l’attuale Jacob Zuma (un presidente che è arrivato a ordinare di sparare contro i minatori in sciopero, ammazzandone una trentina), stanno costruendo un finale ancora peggiore per questa fiaba sudafricana. I Bianchi che fine faranno? Sono a disposizione tante conclusioni alternative. Quelli di estrema destra temono di subire il genocidio e preparano piani di evacuazione totale. I meno politicizzati continuano a vivere la loro vita, subendo un livello di criminalità che è ancora fra i peggiori del mondo e sperando che, prima poi, neri e bianchi comincino ad amalgamarsi sul serio e a condividere pacificamente la stessa casa. Ma intanto erigono muri attorno alle loro case-castello.