Ferguson, chi soffia sull’odio razziale?
Civiltà vuole che si sia innocenti fino a prova contraria. La prova della colpevolezza dell’agente di polizia statunitense Darren Wilson non è stata affatto trovata. Anzi, nel primo processo che ha subito (ci sono altre due indagini in corso), il poliziotto è stato assolto. Era accusato di aver ucciso a sangue freddo un ragazzo disarmato, Michael Brown. L’agente si è difeso sostenendo di aver agito solo per legittima difesa, aggredito a pugni dal suo aggressore. Benché fosse a mani nude, avrebbe anche potuto ucciderlo. Gli spari sarebbero partiti nel corso di una collutazione, dunque, non in una “esecuzione a freddo”. Darren Wilson è stato assolto. La verità assoluta non la conosceremo mai. Non ci sono video, né testimonianze che si siano rivelate definitive. Abbiamo la verità giudiziale e questo è quanto dovrebbe bastare: oltre ogni ragionevole dubbio, Darren Wilson è innocente, ha agito per legittima difesa. Il resto sono calunnie. Almeno fino a prova contraria.
Eppure, sulla tesi dei colpevolisti (noi diremmo forcaioli) sta scoppiando l’America. A Ferguson, cittadina del Missouri in cui Michael Brown è stato ucciso, è stata una notte di guerriglia metropolitana, saccheggi e assalti alle auto della polizia. Gli arresti sono ben 44 in poche ore. Ma la rivolta non si limita a Ferguson, si è estesa anche a Baltimora, New York, Washington, Chicago, Seattle, San Francisco.
Perché? Perché Michael Brown era un afro-americano. Se fosse stato un europeo o un asiatico, o un latinos, ci sarebbe stata la protesta dei parenti e poco altro. Sarebbe stato un altro processo discusso, un po’ come il caso Cucchi qui in Italia. Si sarebbe parlato per un po’ di abusi della polizia, ma poi si sarebbe accettato il verdetto. Il sistema giuridico americano ha retto alla pressione dei media, ha dimostrato di funzionare bene, di esprimere sentenze sulla base di prove e testimonianze oggettive e attendibili. Il solo motivo per cui una sentenza si trasforma in rivolta è l’etnia di appartenenza della vittima. Gli afro-americani, nella scala del vittimismo americano, passano sopra tutti. Passano persino sopra ai latinos, agli ultimi arrivati fra le minoranze. Perché quando fu una guardia giurata di origine latina, George Zimmerman, a sparare a un afro-americano, Trayvon Martin, fu insurrezione, anche in quella occasione.
I casi della morte di Trayvon Martin e di Michael Brown hanno molto in comune. In primo luogo perché, in entrambi i casi, chi li ha uccisi afferma di aver agito per legittima difesa. In entrambi i casi, un tribunale americano ha dato loro ragione. In entrambi i casi, prima della sentenza, i media hanno gonfiato il caso a dismisura. In entrambi i casi, i morti ammazzati sono diventati icone dei diritti civili post-mortem: i loro volti sono comparsi su magliette, portate anche da vip agli Mtv Awards, sono stati riprodotti su cartelli e striscioni nelle manifestazioni, sono stati citati come esempi di tensioni razziali nei discorsi ufficiali di Barack Obama (per Michael Brown, addirittura, nel suo discorso alle Nazioni Unite). La carta razziale paga. È una delle più potenti armi elettorali nelle mani dei democratici, almeno da mezzo secolo a questa parte, da quando Kennedy fece sua la battaglia per i diritti civili.
Sia per Zimmerman che per Wilson, la sentenza, politica, era già emessa: colpevoli di omicidio a sfondo razziale. E invece no: erano innocenti. Ma, a questo punto, la folla afro-americana insorge ugualmente. Perché ormai, spettatrice della gran cassa mediatica e politica, era assetata di sangue. Ora che è giunta l’assoluzione, nessuno pensa di tornare indietro.