Il Team 6 dei Navy Seal, i nuovi Capitan America in difesa del mondo libero Giu11

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Il Team 6 dei Navy Seal, i nuovi Capitan America in difesa del mondo libero

640ec20c-e443-41de-9228-1ed0de1dda79_thumbIl suo vero nome è Steven Grant “Steve” Rogers, ma tutti lo conoscono come Capitan America. Scartato alla visita di leva a causa del suo fisico gracile, gli viene consentito di partecipare a un esperimento segreto, chiamato “Operazione Rinascita”, volto alla creazione di un esercito di super soldati. Siamo negli anni della Seconda Guerra Mondiale e gli Usa si preparano a muovere guerra all’Impero Giapponese. Rogers diventa la punta di diamante, l’unico ad aver sviluppato capacità oltre l’immaginazione di tutto l’esercito. Un super soldato che opera contro le truppe di Hitler in solitaria. Viene arruolato per missioni segrete oltre le linee nemiche, indossando un costume a stelle e strisce che richiama la bandiera americana. Inizialmente viene fornito di uno scudo triangolare che presto sostituirà con uno a forma circolare, praticamente indistruttibile, donatogli dal presidente Roosevelt in persona. Cap impara a utilizzare lo scudo come arma di difesa e d’attacco. E ben presto diventa il prototipo dell’eroe in tutto il mondo libero. Capitan America, prodotto della Marvel, è il fumetto che ispira una generazione di soldati americani arruolatisi nelle truppe speciali Usa. Uomini pronti a tutto, super addestrati, che si muovo nella notte. Rappresentano il braccio armato della politica estera statunitense. Sono i più preparati, i più forti e i più spietati. Nel loro passato ci sono le imprese degli uomini rana impiegati nelle azioni di commando durante la Seconda Guerra Mondiale. Poi, durante il lungo conflitto in Vietnam, le operazioni segrete del Programma Fenice, con le quali la Cia e le Forze Speciali mirano a smantellare la rete della guerriglia Vietcong nel Sud. Qualche anno dopo, nel 1980, il tragico fallimento consumatosi in Iran nel tentativo di liberare i 53 ostaggi americani tenuti prigionieri nell’ambasciata Usa di Teheran. Ed è dalle ceneri di quel disastro che nasce il “Team 6 dei Navy Seal”.

Le operazioni. Negli ultimi anni, i Seal organizzano e conducono missioni letali da una serie di basi segrete in Somalia. In Afghanistan, la guerra più lunga combattuta dagli Stati Uniti, sono impegnati in combattimenti spietati. Durante innumerevoli raid clandestini usano armi sofisticate come fucili d’assalto progettati specificamente per le loro esigenze. In giro per il mondo, eseguono operazioni di spionaggio a bordo di furgoncini o barche commerciali. Si spacciano per impiegati di qualche azienda di facciata, si mescolano al personale delle ambasciate, seguendo le tracce dei bersagli che gli sono stati indicati. Tutte queste operazioni fanno parte della storia segreta del “Team 6 dei Seals”, una delle organizzazioni militari più mitizzate, segrete e meno indagate degli Stati Uniti, ora in parte svelata da una lunga inchiesta del New York Times. Quello che un tempo era un ristretto gruppo di militari super addestrati, impiegato per missioni tanto difficili quanto rare, conosciuto in tutto il mondo per avere ucciso Osana Bin Laden, in oltre un decennio di missioni si è trasformato in una macchina globale per la caccia ai nemici degli Stati Uniti. Il loro nuovo ruolo riflette il modo con il quale oggi gli Usa conducono le loro guerre. Non più conflitti misurabili con le conquiste o le perdite ottenute sul campo di battaglia, ma definiti dalla implacabile caccia di sospetti terroristi. Quasi tutto ciò che riguarda il Team 6 dei Seals è coperto da segreto militare e il Pentagono, ufficialmente, non conferma nemmeno l’esistenza di un’unità militare con quel nome. Anche se, negli ultimi anni, alcune loro imprese sono emerse in una serie di racconti e resoconti giornalistici per lo più elogiativi. Ma un’analisi dell’evoluzione del Team 6, ricavata attraverso decine di interviste con membri attuali ed ex membri dell’unità, con ufficiali e funzionari militari e analizzando una serie di documenti governativi rivelano, scrive il Nyt, un quadro più complesso e controverso. A cominciare dal ruolo assunto dal Team 6 nelle operazioni di intelligence, nell’ambito del “Programma Omega” della Cia, che ha reso assai labile il confine che tradizionalmente distingue un soldato da una spia.

L’attività in tutto il mondo. Il Team 6 ha condotto con successo migliaia di raid segreti che ha indebolito le reti terroristiche in Medio Oriente, in Africa e in Asia. Ma le sue azioni sollevano numerose polemiche e controversie riguardo a un uso eccessivo della forza e alle troppe vittime tra i civili. In particolare, in Afghanistan, nel 2009 condussero un’operazione in un villaggio della provincia dell’Helmand provocando un numero imprecisato di vittime innocenti e le proteste di un comandante britannico e innescando una grave crisi nei rapporti tra la Nato e il governo di Kabul. Perfino un ostaggio Usa, liberato in un drammatico raid dai militari del Team 6, protestò per la carneficina alla quale dovette assistere. Le inchieste sulle azioni più discusse sono state condotte dal Joint Special Operations Command (Jsoc), il Comando militare che sovrintende alle operazioni del Team 6. Raramente, i rapporti sono stati poi inoltrati agli investigatori della Marina, la forza armata alla quale appartengono. “Il Jsoc indaga sul Jsoc, e questo fa parte del problema”, commenta un alto ufficiale militare con esperienza di operazioni speciali, che ha chiesto di rimanere anonimo poiché le operazioni del Team 6 sono coperte da segreto. Anche gli organismi civili che dovrebbero controllare la condotta dei militari hanno un accesso sporadico alle informazioni. “Queste sono cose delle quali il Congresso solitamente non vuole sapere troppo”, spiega Harold Koh un ex importante consulente legale del Dipartimento di Stato che ha fornito all’Amministrazione Obama le indicazioni per condurre le operazioni clandestine.

Dopo il flop in Iran. Il Team 6 dei Seals, nato dopo il tragico flop dell’operazione in Iran del 1980, è per certi versi figlio della Guerra Fredda. Quando la Marina Usa ne affidò la costituzione al comandante Richard Marcinko, un veterano del Vietnam con fama da duro, l’incarico era di creare una forza in grado di rispondere rapidamente alle crisi terroristiche. All’epoca c’erano solamente due unità nei Seals, ma Marcinko scelse per il nuovo gruppo il nome Team 6, per far credere ai sovietici che la Marina disponesse di un nucleo assai più vasto di forze speciali. Ma è dagli attacchi terroristici dell’11 settembre del 2001 che il Team 6 ha visto riversare su di sé una notevole quantità di denaro che ne ha fatto crescere i ranghi fino a circa 300 militari, chiamati operatori e 1.500 persone di supporto. Il gruppo venne inviato in Afghanistan per dare la caccia ai leader di Al Qaeda, ma in realtà rimase impegnato per anni in innumerevoli combattimenti con comandanti e miliziani talebani di livello medio-basso e con altri insorti. Un compito improprio per un’unità altamente specializzata, che pagò anche un prezzo molto alto: negli ultimi 14 anni sono caduti più membri del Team 6 che in tutti gli anni precedenti. Secondo quanto raccontato al Nyt da un ex membro del Team 6, oltre una trentina, tra operatori e personale di supporto sono morti in operazioni di combattimento. Tra di loro, anche i 15 membri del Gold Squadron e due specialisti artificieri che si trovavano a bordo di un elicottero abbattuto nel 2011 in Afghanistan. Il giorno più tragico nella storia del Team 6.

Le cicatrici del Team. Le ferite subite sul campo di battaglia, spesso si sono però rivelate più profonde di quanto apparivano, lasciando molti membri del Team 6 segnati per sempre, sia fisicamente che mentalmente. “La guerra non è questa cosa bella che gli Stati Uniti hanno finito per credere”, afferma Britt Slabinski, un ex membro del Team 6, veterano delle guerre in Afghanistan e in Iraq. “È emotività, un essere umano che uccide un altro essere umano per periodi di tempo prolungati. Finisce per tirare fuori il peggio di te. Ma tira fuori anche il meglio di te”. Al pari delle campagne con i droni condotte dalla Cia, le missioni delle forze speciali hanno offerto alle amministrazioni Usa un’alternativa alle costose guerre di occupazione. Pur senza fornire dettagli specifici e senza commentare direttamente le attività del team 6, il Comando delle operazioni speciali degli Stati Uniti ha riferito che dagli attacchi dell’11 settembre del 2001 le sue unità sono state coinvolte in decine di migliaia di missioni e operazioni in molteplici teatri geografici e hanno sempre mantenuto gli alti standard richiesti alle forze armate degli Stati Uniti. Si tratta di una risposta indiretta alle critiche rivolte ai comandi militari dall’ex senatore democratico del Nebraska Bob Kerrey, che fu un membro dei Seals durante la guerra del Vietnam, secondo il quale negli ultimi anni c’è stato un impiego eccessivo del Team 6 e delle altre unità di forze speciali. “Sono diventati una specie di Numero Verde da chiamare ogni volta che qualcuno vuole che venga fatto qualcosa”, afferma. Kerrey tuttavia ammette che il ricorso a queste unità di elite spesso è inevitabile, quando i leader politici si trovano ad affrontare una di quelle situazioni in cui la scelta è tra una scelta orribile e una cattiva scelta. Insomma, quelle situazioni in cui non hai alternative. A fornire un’alternativa in situazioni nelle quali l’impiego di altre unità di forze speciali sarebbe sconsigliabile, se non imbarazzante in termini diplomatici a causa della loro natura clandestina, è ancora una volta il Team 6. Oltre alle operazioni sotto copertura condotte in Afghanistan e in Pakistan, i membri del Black Squadron, l’unità di intelligence del Team, sono stati impiegati in missioni di spionaggio in svariati angoli del mondo.

Il “Black Squadron”. Originariamente era il gruppo di cecchini del Team 6, dopo l’11 settembre 2001 è stato riconvertito in un’unità per condurre operazioni di forze avanzate. Nel gergo militare, l’espressione viene impiegata per indicare la raccolta di informazioni di intelligence e le altre attività clandestine che precedono le missioni vere e proprie. Un concetto divenuto molto popolare durante la gestione del pentagono dell’ex segretario alla Difesa dell’Amministrazione Bush, Donald Rumsfeld. Dalla metà dello scorso decennio, membri del Black Squadron sono stati dispiegati nelle ambasciate Usa di mezzo mondo, dall’Africa sub-sahariana all’America Latina, al Medio Oriente. Muovendosi sotto copertura, utilizzando credenziali diplomatiche, fingendosi dipendenti di aziende fittizie, gli operativi del Black Squadron, oggi circa un centinaio, hanno spesso varcato la linea che distingue un militare da una spia. Dalla loro, oltre che a sofisticate attrezzature hi-tech e a budget milionari, hanno anche un arma in più rispetto al resto del Team 6: le donne. I membri maschili e femminili lavorano insieme, fingendosi normalissime coppie di americani all’estero e attirando meno l’attenzione dei servizi di intelligence nemici. “Quando c’ero io, eravamo sempre in cerca di guerre”, ricorda Ryan Zinke, un ex membro del Team 6, oggi deputato repubblicano alla Camera dei Rappresentanti. Insieme a loro e all’ideale di libertà e democrazia rivive il destino senza macchia di Capitan America. Il fumetto più amato dallo zio Sam.

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