La vita dopo il Super Tuesday Mar02

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La vita dopo il Super Tuesday

Devastante. Ma comunque previsto. Donald Trump vince il Super Tuesday abbastanza nettamente, sia in termini di stati (ne porta a casa sette, contro i tre di Cruz e il solo Minnesota di Rubio), che di voto popolare che soprattutto di delegati. La settimana appena trascorsa è stata spesa interamente a preparare il terreno per la mattina in cui il GOP si sveglia e non si riconosce più allo specchio. Nonostante l’establishment, la National Review, le gaffes a ripetizione, i sondaggi che lo dipingono come il “meno presidenziabile”, The Donald vince e convince. Il ciclone che dalla Trump Tower si abbatte su quel che resta del partito di Reagan ha dimensioni e intensità che mai si erano misurate: i partecipanti alle primarie crescono nettamente rispetto al 2008 e al 2012, salta qualsiasi schema ideologico e qualsiasi tradizionale ripartizione del partito in aree più o meno omogenee. Il mondo conservatore ormai si divide in Trump e Never Trump: nel mezzo, il nulla.  Se il Partito Repubblicano non vuole rassegnarsi a sostenerlo alle prossime presidenziali, gli restano ormai tre scenari, scartate le ipotesi non percorribili (Rubio o Cruz che vincono in solitaria) e quelle fantascientifiche (la speranza di un indipendente in grado di battere sia Trump che Clinton).

La prima ipotesi è quella all’apparenza più logica e tipica di questi processi democratici. I repubblicani identificano, finalmente, uno e solo un profilo da contrapporre a The Donald. I numeri sin qui raccolti nelle primarie dicono Ted Cruz, inutile girarci troppo intorno. Il senatore texano ha mille difetti eppure appare il più solido oppositore del tycoon newyorchese. Ha vinto a casa sua, in Texas, ha il doppio dei delegati di Marco Rubio e non è così identificato con l’establishment. La strada percorribile è quella di un ticket Cruz-Rubio con Kasich e Carson che si ritirano oggi e vanno “all in” sul nuovo corso del Gop, sperando che questo basti e di essere ancora in tempo. I rischi di questa operazione sono molteplici: Rubio non intende ritirarsi prima di essere arrivato in Florida (15 marzo), Carson ha già detto che terrà botta sino almeno al prossimo giro di stati e Kasich si è prefissato dall’inizio di questa corsa di giocarsi tutto a casa sua, in Ohio. Questo rende il ticket praticabile solo dopo la metà di Marzo, quando si sarà votato in altri 19 stati e saranno stati assegnati ben 286 delegati con la formula del “winner take all”: dovessero finire tutti a Trump potremmo considerare praticamente chiusa la partita e sostanzialmente ininfluente ogni tentativo di aggregazione su un candidato alternativo.

La seconda ipotesi è da un lato estremamente complessa, dall’altro espone a un rischio politico molto elevato. I ritiri dei candidati che sin qui hanno abbandonato il campo delle primarie non ha determinato una redistribuzione del voto secondo logiche razionali: i consensi di Walker, Rand Paul, Jeb Bush, Carly Fiorina e da ultimo Chris Christie non sono finiti al candidato ideologicamente più simile. Anzi: il vero beneficiario del restringersi del campo dei contendenti sembra essere stato proprio Donald Trump. Nulla esclude che possa accadere ancora e che l’addio di Kasich e Carson non finisca per galvanizzare ulteriormente la campagna del miliardario newyorchese. Così come non è per niente scontato che i sostenitori di Rubio accettino di votare per un ticket in cui il loro beniamino fa da supporting cast. Quel che concretamente potrebbe succedere è che tutto rimane così com’è e, per evitare Trump, il GOP deve affidarsi a una vittoria di Rubio in Florida, a un’affermazione di Kasich in Ohio e a una successiva ripartizione dei delegati che non assegni una maggioranza a Trump in vista della convention. A quel punto il fronte degli “Anyone but Trump”  sposterebbe il campo di battaglia alla convention di Luglio in Ohio dove le varie anime del partito dovrebbero provare a trovare un nome su cui convergere. E potrebbe, anzi: dovrebbe, essere un nome diverso rispetto a quelli sin qui scesi in campo. I rischi di un percorso di questo tipo sono evidenti, con l’establishment che si vedrebbe rinfacciata l’ennesima operazione di palazzo.

Il “cavaliere bianco” a cui tutti pensano è chiaramente Mitt Romney. Poteva essere candidato nuovamente in queste primarie, ha scelto di non farlo anche per questioni “generazionali”. Siccome i nuovi arrivi non sembrano riuscire a sbrogliare la complessa matassa della leadership, allora si potrebbe tornare da lui e chiedergli, non senza il rischio di sentirsi opporre un diniego, di provare a scendere in campo per salvare il salvabile. Ha dalla sua molte cose: la base del partito l’ha digerito già nel 2012, è un businessman come Trump, non è legato a ruoli di governo da molto tempo, può correre da populista moderato contro la Clinton e al tempo stesso rassicurare l’establishment. E’ paradossalmente più facile venga incoronato da una convention che non attraverso quella che potrebbe essere la terza strada per fermare Donald, ovvero una discesa in campo in tempi rapidissimi con gli altri candidati che si fanno dignitosamente da parte e sostengono l’ex sfidante di Barack Obama.

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