Bruxelles, cinque anni fa
Dopo gli istanti trascorsi a mettere ordine tra le notizie che giungevano da Bruxelles, martedì mi sono ritrovato con la memoria a cinque anni fa, quando per conto dell’Agenzia nazionale giovani ho seguito come giornalista i lavori della European Youth Week 2011: ragazzi provenienti dai paesi dell’Ue e da altri che pur non facendone parte hanno rapporti con l’Unione come ad esempio Svizzera, Norvegia, Islanda e Turchia, ritrovatisi nel centro dell’Europa.
Una serena settimana di maggio, con un clima molto mite e appuntamenti sparsi tra Le Berlaymont, dove ha sede la Commissione europea, e altri edifici della zona ai quali io e i colleghi arrivavamo scendendo con la metropolitana alle fermate di Schuman e Maellbeek. Raccontavamo gli incontri dei delegati, intervistandoli o recuperando notizie, sotto il coordinamento di Tom, londinese – ironico pensarci ora, con il referendum sulla Brexit in programma a giugno.
La lingua inglese era quella che ci metteva in contatto, parlata con tutti gli accenti possibili del Vecchio continente, fatte salve le conversazioni con Marin, reporter croato che aveva studiato in Italia e così con lui mi riservavo i commenti più diversi, riferiti soprattutto alle ragazze e alla noia di certi meeting.
Al centro del dibattito della EYW c’era il cosiddetto Structured Dialogue, che a cinque anni di distanza non ho ancora ben chiaro cosa sia. Tra gli interventi quello di un professore sessantottino, sciattamente vestito in giacca e senza cravatta, rasta in testa e osservazioni completamente teoriche e ridondanti. Seduto alle ultime file della sala, scambiavo sorrisi beffardi con un paio di fotografi di fronte ad affermazioni che sembravano uscite direttamente dalle porte di una birreria, una di quelle dove andavo volentieri a rinfrescarmi.
Fortunatamente, oltre alle parole c’erano le singole persone che portavano con sé delle storie. Posizioni diverse sui più diversi argomenti, ma con una serenità nell’affrontarli e nel difendere le proprie idee che dimostravano un’ottima preparazione e, in alcuni casi, un saldo pragmatismo, specialmente durante uno degli ultimi appuntamenti in agenda, verso la fine della settimana, quando fummo gentilmente accolti dall’ambasciata cinese per cena: tra noi giornalisti e i delegati ormai non c’era alcuna barriera – d’altronde non si era mai creata – e il fatto di rappresentare individualmente un gruppo di giovani contrapposto per mentalità e provenienza ai padroni di casa forse aiutava a interagire meglio con un mondo distante non solo geograficamente. Ad un funzionario cinese domandai come sarebbe stato possibile costruire un rapporto non solo diplomatico e di convenienza con l’Europa e lui mi rispose: “Noi abbiamo tempo, è il nostro modo di agire”. Pensai per un attimo alla storia del tipo che si siede sulla riva del fiume ad aspettare il cadavere del nemico.
In quei giorni ho conosciuto giovani italiani volati a Bruxelles per cercare un’opportunità oppure per essere premiati per dei progetti internazionali alla presenza di José Barroso ad Anversa (dopo la cerimonia ammetto di essermi quasi appisolato durante la conferenza stampa, ma d’altronde conosciamo molto bene la flemma montiana dei vertici europei). Ho visitato in lungo e in largo una città dove sono transitato a più riprese anche in seguito, come tappa nei tour in pullman con a bordo i ragazzi che ho accompagnato quattro volte nei college in UK in estate.
Ho incrociato i quartieri periferici, un crogiuolo di immigrati arabi che hanno trovato casa anche grazie all’accondiscendenza governativa tramite sussidi e benefit, rafforzando un universo parallelo che nasconde i terroristi che lasciano il segno nelle nostre capitali.
Bruxelles, con il suo fascino medievale e di secoli passati, è lo specchio dei tempi, marcati da errori e sollazzi, dal convincimento di essere un modello esportabile basato esclusivamente su documenti, direttive e da quelle parole ridonanti e calibrate per non offendere nessuno, quindi prive di significato perché incapaci di stimolare opinioni sostenute da idee, fatti e conoscenze, ma piuttosto derivanti da pregiudizi verso noi stessi, sensi di colpa e sindrome da struzzo.
Rimangono i frammenti di quella settimana che provano a suscitare un flebile ottimismo – i gessetti colorati lasciamoli ai bambini.