Parlare di intelligenza? È politicamente scorretto
Il nome di Charles Murray provoca da sempre reazioni forti nel dibattito scientifico e politico statunitense. “Losing Ground” (1984), scritto in piena rivoluzione reaganiana per analizzare gli effetti del welfare sulla società americana, ha spaccato esattamente a metà accademici e commentatori. La tesi centrale del libro – quella che in seguito sarebbe diventata la “Legge di Murray” – è che ogni programma di welfare è condannato ad avere conseguenze negative sulla società, danneggiando in particolar modo le categorie di persone che si vorrebbero aiutare. Ma “Losing Ground” non è un testo di filosofia o un pamphlet politico, bensì un trattato di scienza politica metodologicamente ineccepibile, in cui numeri, dati e inferenze statistiche rivestono un ruolo altrettanto importante rispetto alla teoria da cui muove l’impianto dell’opera. Dimostrando, cifre alla mano, che il welfare fa più male che bene, Murray sfila con maestria alla sinistra la carta della presunta equivalenza tra assistenzialismo e moralità, lanciando di fatto quel dibattito sulla riforma del welfare che avrebbe caratterizzato la politica americana nei decenni successivi.
Precipitando sul mondo accademico come un meteorite a Manhattan, “Losing Ground” crea anche quella linea di demarcazione tra seguaci e detrattori di Murray che ancora oggi non sembra essere destinata a scomparire. Dalla sua parte, quei pensatori ed esponenti politici conservatori o libertarian che non hanno mai potuto soffrire gli eccessi dello stato assistenziale, considerato come contrario alla natura stessa dell’esperimento americano. Contro di lui, tutta l’intellighènzia sinistrorsa che dal welfare (e dalla sua gestione) ha sempre ottenuto un patrimonio inestimabile di finanziamenti e consenso elettorale.
I nemici del mite scienziato politico nato a Newton (Iowa), in «una famiglia che sembra uscita da un quadro di Norman Rockwell» (la definizione è di Murray stesso), crescono a dismisura dopo la pubblicazione – insieme al professore di Harvard, Richard J. Herrnstein – di “The Bell Curve” (1994). Il punto centrale del libro (sottotitolo: “Intelligenza e struttura delle classi nella vita americana”) è semplice: misurando l’intelligenza si riescono a predire con molta precisione alcuni fattori – reddito, performance lavorative, gravidanze extra-matrimonio, comportamenti criminali – che incidono sullo status socioeconomico degli individui. Nel libro, diventato presto uno scomodissimo New York Times Bestseller, Murray e Herrnstein sostengono, anche stavolta con una mole imbarazzanti di dati a supporto della loro teoria, che le persone con alti livelli di intelligenza (le “élite cognitive”) tendono a isolarsi dal resto della popolazione, creando un trend sociale molto pericoloso. Questa tendenza, di cui Murray trova conferma nei dati raccolti in uno dei suoi ultimi lavori (“Coming Apart”, 2012) è il vero nodo centrale di “The Bell Curve”, che però è passato alla storia anche per tutt’altri motivi. E questo ci porta, direttamente, a quello che è accaduto di recente.
Un paio di settimane fa, il rettore di Virginia Tech – su pressione dei sacerdoti del politically correct che controllano la sua università (e gran parte delle università americane) – è costretto a scrivere una lettera aperta a studenti e professori per difendere la decisione di invitare Murray a un convegno sul tema “Capitalismo e Libertà”. Invitando la “comunità” di Virginia Tech ad abbracciare il principio della «libertà di parola, anche di fronte a persone le cui vedute ci sembrano ripugnanti, offensive o perfino fraudolente», il rettore Tim Sands prosegue: «Il Dottor Murray è conosciuto soprattutto per il suo controverso, e largamente screditato, lavoro che collega la misurazione dell’intelligenza all’ereditarietà e, in particolare, alla razza e l’etnia. Una teoria errata, usata da qualcuno per giustificare il fascismo, il razzismo e l’eugenetica». Murray è un ciarlatano razzista, insomma, ma noi siamo così buoni e superiori che possiamo anche perdere un’oretta ad ascoltare le sue farneticazioni.
Ora, se c’è qualcosa di peggiore della spazzatura politicamente corretta che ha travolto il sistema universitario statunitense negli ultimi anni, è certamente l’ignoranza sparsa a piene mani, con tanta noncuranza, dai vertici delle istituzioni accademiche. Il rettore Sands dimostra non solo di non aver mai letto un libro di Murray, ma anche di prestare fede alle facezie diffuse da diffamatori di professione che con il mondo della ricerca scientifica non dovrebbero avere niente a che fare. Ma che da oltre vent’anni descrivono “The Bell Curve” per quello che non è.
Come ha scritto lo stesso Murray qualche giorno dopo, in una “contro-lettera aperta” pubblicata sul sito dell’American Enterprise Institute, l’analisi del rapporto tra intelligenza e razza in “The Bell Curve” occupa ben 17 (diciassette!) delle 912 pagine che compongono l’opera, in un capitolo che si conclude con queste parole: «Ci sembra altamente probabile che sia la genetica sia l’ambiente abbiano qualcosa a che fare con le differenze razziali [nella misurazione dell’intelligenza, ndr]. In quali proporzioni? Noi restiamo risolutamente agnostici su questo argomento, perché nessuna delle prove raccolte è sufficiente a giustificare una stima esatta». Chi legge in questo una “apologia del razzismo” deve probabilmente aver subito qualche trauma rilevante durante l’infanzia.
Venerdì scorso, dopo tutta questa messa in scena, Charles Murray ha regolarmente parlato di “capitalismo e libertà” di fronte agli studenti di Virginia Tech. Fuori dall’aula, una cinquantina di decerebrati ha continuato a protestare con cartelli del tipo “Boicottiamo il razzista Murray! Hitler avrebbe adorato The Bell Curve”. Se queste sono le classi dirigenti del futuro, l’Occidente è spacciato.
© Il Giornale dell’11 aprile 2016