Harvard, Saudi Arabia

Cento miliardi di dollari per diffondere in tutto il mondo le virtù del wahabismo. Più del doppio di quanto sborsato dall’Unione Sovietica durante la Guerra Fredda per le sue operazioni di propaganda in Occidente. Tanto, secondo gli analisti, è costata alla casa reale saudita negli ultimi 35 anni l’opera di costante promozione di quella che Bernard Lewis ha definito “la più radicale, la più violenta, la più estrema e la più fanatica versione dell’Islam”, entrata ormai a pieno diritto nel mainstream grazie all’oro nero di Riad. E non sono solo le madrasse pakistane o il network dei Fratelli musulmani le destinazioni preferite di questa enorme massa di denaro. Malgrado un tasso di alfabetizzazione in Arabia Saudita inferiore al 50 per cento, infatti, la casa regnante fondata da Abdul Aziz Ibn Saud – che governa il paese fin dalla sua fondazione – preferisce di gran lunga finanziare le università occidentali. Con un occhio di riguardo verso i più prestigiosi atenei statunitensi.

A guidare la classifica dei “beneneficiati” è Harvard, con cifre stimate intorno ai 30 milioni di dollari. Il gioiello della Ivy League ne ha ricevuti venti soltanto nel 2005, grazie a una donazione del principe Al-Waleed bin Talal Al-Saud (nipote del Re Fahd che sarebbe scomparlo dopo pochi mesi) per l’istituzione del suo “Center for Middle Eastern Studies”. Stessa cifra, stesso anno, stesso donatore per la Georgetown University, la più antica università cattolica degli Stati Uniti, per un “Center for Muslim-Christian Understanding” che sotto la guida di John L. Esposito è diventato l’epicentro della propaganda anti-semita e anti-americana nella zona di Washington DC. E ancora: 20 milioni di dollari per il “Middle East Studies Center” dell’Università dell’Arkansas; cinque milioni di dollari per “Center For Middle East Studies” di Berkeley, in California (in questo caso i donatori sono due sceicchi sauditi universalmente riconosciuti come vicini ad al-Qaeda); 11 milioni di dollari alla Cornell University dello stato di New York; un milione e mezzo di dollari alla Texas A&M University (il settimo ateneo, in ordine di grandezza, di tutti gli Stati Uniti); un milione di dollari a Princeton; cinque milioni di dollari alla Rutgers University di Newark, in New Jersey. Poi ci sono cifre non precise, ma quasi sempre superiori al milione di dollari per la Columbia University di Manhattan, che ha tentato inutilmente di tenere nascosta la fonte della donazione; per la University of California di Santa Barbara; per la Johns Hopkins University di Baltimora, in Maryland; per la Rice University di Houston, in Texas; per la American University di Washington DC; per la University of Chicago; per la Syracuse University dello stato di New York; per la University of Southern California di Los Angeles; per la UCLA, sempre di Los Angeles; per la Duke University in North Carolina e per la Howard University, la storica università afroamericana di Washington.

Quasi sempre, queste generose donazioni vengono elargite ai sensi del Titolo VI dell’Higher Education Act del 1965, un programma del ministero dell’Educazione statunitense che garantisce fondi alle università che “istituiscono o rafforzano centri di studio internazionale”. Oltre ai soldi sauditi, dunque, i “centri studi islamici” vengono finanziati direttamente anche dai contribuenti americani. Che pagano di tasca propria per la diffusione di propaganda anti-americana e anti-semita. Quelli che dovrebbero essere strumenti per “sostenere la diversità culturale attraverso il dialogo”, infatti, sono quasi sempre nuclei per la formazione di un pensiero unico controllati da attivisti politici. Una testimonianza, datata ma agghiacciante, è quella del giornalista Lee Kaplan che nel novembre del 2004, dalle colonne di FrontPage Magazine, descrive la Middle East Studies Association (Mesa) Conference di San Francisco. Distribuzione di “materiale informativo” in cui gli attentatori suicidi vengono contati tra le vittime del “genocidio palestinese” e in cui viene raccontato che i navigatori arabi hanno scoperto l’America prima di Cristoforo Colombo; raccolte di firme per “associazioni benefiche” collegate al terrorismo islamista; conferenze sul Medioriente affidate a relatori imparziali come Noam Chomsky, Robert Fisk, Hanan Ashwari, Michael Lerner e Hussein Ibish (il gotha dell’antisemitismo internazionale). Eventi come il Mesa 2004 sono, ormai, all’ordine del giorno in moltissimi atenei statunitensi. E qualsiasi manifestazione di dissenso, organizzata da studenti conservatori o ebrei, viene stroncata con la forza sotto lo sguardo distratto delle autorità accademiche, ansiose di non perdere i finanziamenti di Casa Saud.

Ma l’influenza saudita/wahabista non si ferma alle università. Perché, grazie al “cavallo di Troia” del Titolo VI, il denaro di Riad è arrivato a comprarsi anche la scuola dell’obbligo. I centri studi co-finanziati dal governo federale, infatti, hanno l’obbligo di mettere in piedi programmi di “sensibilizzazione” rivolti ai maestri e ai professori delle scuole primarie e secondarie, che vengono gratificati da una ricca aggiunta al proprio curriculum. La propaganda delle università, dunque, scivola senza controllo verso gli alunni di ogni età, con seminari in cui vengono celebrate le gesta storiche e gli insegnamenti di Maometto, in cui i partecipanti si esercitano a “nominare gli imam”, a memorizzare i principi islamici e a simulare preghiere in moschea. Provate per un attimo a immaginare se, con i soldi di uno stato straniero e il finanziamento del governo federale, ad Harvard venissero organizzati seminari simili, ma basati sulla religione cristiana o sull’ebraismo. Un esercito di avvocati liberal, stipendiati dalla American Civil Liberties Union (Aclu) o dagli American United for Separation of Church and State (Au), piomberebbe come un sol uomo sul malcapitato rettore, costringendolo a dimettersi più in fretta di Larry Summers dopo il discorso sulle donne poco portate per la matematica. Così vanno le cose, sotto la dittatura del multiculturalismo.

(da Il Foglio del 9 marzo)

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