Usa2016: dibattito 1 Set28

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Usa2016: dibattito 1

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The Day After
di Andrea Mancia

Alla fine spunta il Trump che non ti aspetti. E un po’ te ne dispiaci. Perché The Donald ha avuto più di un’occasione per affondare il colpo, ma ha preferito rimandare. Mentre la Clinton (che ti aspetti) è sembrata preparata, in salute, lucida e cattiva. Forse un pizzico troppo cattiva per qualcuno che ha un livello di unlikeability alto come il suo. Poi, dopo il dibattito, guardi la faccia dei componenti dell’inner circle clintoniano (Clinton News Network compreso) e ti accorgi che non se l’aspettavano neanche loro un Trump così. Intuisci che non hanno troppa voglia di festeggiare un successo, almeno apparentemente, così largo. Eppure i primi sondaggi sono un plebiscito per Hillary. Indecisi, elettori della Pennsylvania, simpatizzanti trumpisti, semplici passanti: è tutto un coro a favore della quasi-incumbent. Ma Trump non ha commesso gaffe, è andato meglio dell’avversaria nella prima mezz’ora del dibattito (quella che guardano le persone normali), non è quasi mai sceso sul livello dell’attacco personale (come ha fatto lei per un’ora abbondante), ha resistito più o meno brillantemente al bias di un moderatore non all’altezza. E soprattutto è rimasto incollato ai suoi talking point: sull’anti-politica, sul commercio internazionale (qui la Clinton è stata abbondantemente al di sotto della sufficienza), sull’Iran Deal, perfino sulla guerra in Iraq. Troppo prolisso nel difendersi dagli attacchi di Hillary, non c’è dubbio, troppo vago sui dettagli delle proposte politiche (come sempre, del resto), ma chi si aspettava uno scatto di nervi o la perdita del controllo è rimasto deluso. Trump è sembrato normale, terribilmente normale. E questo era probabilmente il suo principale obiettivo nel primo dibattito. Per le scappatelle seriali di Bill, per la Clinton Foundation, per le email scomparse, per Benghazi, per i fuochi d’artificio, insomma, c’ ancora tempo. Tanto tempo.

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Hillary pareggia fuori casa
di Simone Bressan

Chi ha seguito le primarie del Partito Repubblicano sa bene che ogni dibattito si è sempre trasformato in una monumentale discussione su Donald Trump. Quanto è impresentabile, quanto è insopportabile, quanto consenso comunque riesce ad avere. Il primo dibattito presidenziale si è aperto con le stesse, identiche premesse. E con uno sparring partner salito sul ring in pessima forma, fisica e politica. Hillary Clinton è, infatti, reduce da un paio di settimane terribili. Il malore a Ground Zero l’undici settembre ha fatto diventare la sua salute un argomento di discussione centrale in questa campagna elettorale, sollevando più di qualche dubbio sulla sua tenuta fisica in momenti di stress elevato. Lei è sparita dalla scena, ricomparendo sotto i riflettori della Hofstra University per sottoporsi alle domande di Lester Holt. La prestazione dell’ex Segretario di Stato è stata convincente. Ha, sorprendentemente, attaccato per prima, dimostrando una vivacità e aggressività sin qui tenuta ben nascosta. Trump si è difeso, un paio di volte ha evitato di affondare il coltello ed è parso più preoccupato di non commettere errori madornali che di sferrare il colpo del Ko. La domanda in questi casi è sempre la stessa. Chi ha vinto? La risposta, al solito, non può prescindere da una valutazione più ampia: questa non è una partita di calcio, né un match di football americano. È una maratona. Per di più a tappe. Trump è apparso impreparato, per nulla presidenziale, a tratti fuori contesto. Ma non ci sono state novità rispetto a quel che già si sapeva. Clinton è sembrata iper-preparata, molto a suo agio nel format ma non ha allargato di un millimetro la sua base politica di riferimento. Continua e continuerà ad avere problemi con la classe media bianca e con i millennials e nei novanta minuti di discussione non è mai riuscita a cambiare la percezione di un candidato molto serio ma anche molto tradizionale. Al netto dei sondaggi, ai punti ha vinto lei. Ma questa contesa elettorale non è una questione di merito delle cose ma di sensazione. E la sensazione finale è quella iniziale: un candidato dell’establishment sfidato apertamente dall’esponente di un’America impaurita e arrabbiata. Niente di nuovo sotto il sole e soprattutto niente di nuovo sotto i riflettori del nuovo dibattito.

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