Spazio, ultima frontiera (americana)
Il 12 luglio del 1893, a Chicago, Frederick J. Turner introduce nell’immaginario collettivo un’originale spiegazione che giustificherebbe, in tutto o in parte, l’eccezionalismo americano. Nasce così il tema della “frontiera americana”, argomento che ha fatto le fortune di politici, storici, sociologi di ogni età e provenienza. Secondo Turner i primi coloni che si stabilirono nella costa est degli attuati Stati Uniti, erano a tutti gli effetti europei: per origine, cultura, senso delle istituzioni. La presenza a Ovest di terre potenzialmente coltivabili e di un continente da conquistare e costruire ha conferito agli americani quelle caratteristiche che li rendono, al tempo stesso, osannati e odiati. È il sentimento della frontiera, dell’uomo che si stabilisce dove meglio crede, che plasma il territorio e le istituzioni a sua immagine e somiglianza, che rispetta le tradizioni ma è pronto a cambiarle per fondarne di nuove. Turner stesso, e molti dopo di lui, individuarono un limite fisico a questa epica della “frontiera”. Essendo la terra finita per definizione, prima o poi, sarebbe scemata anche la tensione perenne alla conquista e al cambiamento.
Logico, forse, ma siamo in America: il luogo dove l’impossibile diventa possibile. E dove un imprenditore visionario come Jeff Bezos dopo aver ispirato un’autentica rivoluzione nel modo in cui leggiamo libri e acquistiamo beni di consumo, ed essersi cimentato nel duro lavoro di editore di uno dei più grandi giornali statunitensi, sceglie di disegnare una nuova frontiera con cui cimentarsi e una nuova sfida da offrire al proprio Paese. Il fondatore di Amazon e proprietario del Washington Post, ritirando il Premio Heinlein allo Smithsonian National Air and Space Museum, ha parlato della sua visione sull’espansione della civiltà umana nello spazio: dal turismo interplanetario ai reattori nucleari per spingere le astronavi al di là del sistema solare. Tutti temi di cui si occupa da tempo e per cui ha fondato Blue Origin, una company interamente privata che si pone come obiettivo quello di sviluppare tecnologie in grado di portare gli uomini nello spazio, a costi contenuti e con modalità accessibili a tutti.
Una sorta di testamento molto anticipato, per sua stessa ammissione. «Quando avrò 80 anni – ha spiegato Bezos – vorrei poter dire di aver creato l’infrastruttura necessaria a far andare la prossima generazione nello spazio». Non per fini scientifici, però. Bezos pensa proprio ad una migrazione di massa, «perché i giovani possano trovare nello spazio le opportunità imprenditoriali che la mia generazione ha trovato su internet». Proprio dalla sua esperienza di imprenditore hi-tech, Bezos ha imparato che bisogna guardare al lungo periodo e prepararsi a costruire l’impossibile. Trent’anni fa nessuno avrebbe immaginato un mondo dominato dalla rete in modo così pervasivo e anche quando internet stava entrando nelle nostre case con connessioni a basso costo, sono stati pochi a predire un futuro in cui anche gli oggetti sarebbero finiti “in rete”.
«Quello in cui viviamo – secondo Bezos – è un pianeta incredibile. Spiagge, cascate, città entusiasmanti, ristoranti, eventi e tutte le cose belle a cui siamo abituati le troveremo soltanto qui per molto tempo ancora. Non penso di trasferirmi su Marte a breve – ha scherzato – anche perché lì non ci sono oceani, piscine, centri urbani e nemmeno bacon e whiskey». Questo non significa, però, che non occorra prepararsi all’impossibile. «Credo che i sognatori arrivino prima di tutti – ha raccontato il fondatore di Amazon – poi arrivano i costruttori. Molto spesso i sognatori parlano di idee catalogate subito come “impossibili” e poi scopriamo che, lavorando nella direzione giusta, anche per molte generazioni, quelle idee possono diventare realtà».
Bezos e Blue Origin, ovviamente, non sono i soli investitori privati ad essersi affezionati all’idea di mandare l’uomo stabilmente nello spazio. I competitor non mancano e vanno dal co-fondatore di PayPal Elon Musk con la sua SpaceX al vulcanico imprenditore britannico Richard Branson con la sua linea di viaggi turistici spaziali, Virgin Galactic. Sul tema, Bezos è molto chiaro: «I grandi comparti industriali non vengono creati da singole aziende: la competizione fa bene a tutti e lo spazio è molto grande. Anche perché il nostro vero competitor si chiama forza di gravità». Un attivismo attorno a questo tema non sembra avere uguali in altre economie avanzate: se da più parti, infatti, ci si è specializzati nello studio di quel che avviene nello spazio, soltanto oltreoceano si è iniziato concretamente ad immaginare una vita che si sviluppa anche lì.
La nuova “frontiera” è quindi delineata. E ha tutto per essere rivoluzionaria come la prima: grandi spazi da occupare, infinite opportunità da cogliere e un futuro che appare incerto e per ora solo tratteggiato. Ma è proprio in condizioni di questo tipo che si innescano i grandi cambiamenti in grado di modificare il corso della Storia. Abbiamo poche certezze ma sappiamo che presto o tardi ci ritroveremo ad aggiornare le nostre mappe: i prossimi navigatori, infatti, dovranno indicarci la strada più veloce per arrivare su Marte. Sempre che qualcuno trovi il modo di costruirci una piscina e di portarci dell’ottimo bacon. Ma se non ci riesce Jeff Bezos, chi altro potrebbe farlo?