Americani a intermittenza
Dieci anni dopo. La ricostruzione sta procedendo spedita, si inaugura il 9/11 memorial museum, e ci dicono che Bin Laden sia a far compagnia ai pesci, dopo averla fatta ai ratti. Tutto bene? No.
Tutto bene mai, in questa occasione, a parere di chi scrive. Parere personale, ovviamente, ma ci sono ferite che non si rimarginano ed è giusto che non lo facciano; che se ne infischiano degli anniversari, a cifra tonda o meno; che hanno una funzione ciclicamente catartica ben precisa. Scars remind us where we’ve been, not where we’re headed to: le cicatrici ci ricordano dove siamo stati, non dove siamo destinati ad andare. Trovo questo aforisma profondamente vero, ma proprio perché lo faccio mio, non sopporto chi lo interpreta traducendolo in “chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato, scurdammoce ‘o passato”.
New York è viva e vivace più che mai. Avete presente quella frenesia positiva, quella ispirazione frizzante, quella ebollizione attitudinale a fare tanto che si prova quando si esce di casa inusualmente presto, e la città ancora sonnecchia? Ecco, New York è così 24 ore su 24, e questo trasmette a chi ci vive o a chi ci va da turista o per lavoro. New York è “we go down, and you go up, thank you NYFD we owe you our lives”. New York è quel posto nel quale i simbolici grattacieli sono sempre stati costruiti nei periodi di grande crisi: fu così per il Chrisler Building e per l’Empire State Building negli anni ’30, e per le Twin Towers negli anni ’70: ed è così oggi per la Freedom Tower (sì, la Freedom Tower: qualcuno ipocritamente l’ha ribattezzato One World Trade Center ma quella è e rimarrà la Freedom Tower, in barba a chi ha paura ad usare la parola libertà là dove quella parola è di casa definitivamente). Qualche folle pensava di piegare questo approccio della città che non dorme mai, ma New York gli ha spiegato di essersi sbagliato non dieci o cinque o un anno dopo, ma passata qualche decina di minuti dalla vile dichiarazione di guerra avvenuta dieci anni fa. Perché caspita, ragazzi, ci vuole un bel coraggio per chiamarla incidente, o tragedia, o dramma; quella fu una dichiarazione di guerra a tutti noi, tutti, nessuno escluso. Portata contro chi ci rappresentava al meglio, e da essi combattuta e sconfitta anche per noi.
Eravamo tutti americani, sì. Me lo ricordo, eravamo tutti tutti tutti americani. E poi a un certo punto alcuni si stancarono di esserlo, anche relativamente presto. Come quelle brave persone tanto a modo che vedono qualcuno a terra e bofonchiano qualcosa all’indirizzo di chi ha provocato il danno, ma poi passano e vanno via, non sia mai mi metta in mezzo qualcuno e poi io c’ho da fare. D’altronde essere americani è impegnativo, ci vogliono spalle larghe e coraggio, è spesso poco comodo e devi essere abituato a vedere dimostrato quotidianamente in giro per il mondo che “no good deed goes unpunished”, perchè ci sarà sempre qualcuno che invece di ringraziarti ti accuserà di qualche nefandezza. Ci sono decine di migliaia di soldati americani sepolti nei cimiteri di guerra sul nostro suolo, quasi sempre immancabilmente deserti di qualsiasi nostra gratitudine, a dimostrarlo. E così, americani a intermittenza, qualcuno ha pensato bene di smettere di esserlo per qualche anno vomitando addosso all’America di tutto e di più: salvo piantarla come un sol uomo uno storico giorno del novembre 2008, quando – manco fossero tutti in preda ad un incantesimo – questi Americani a intermittenza ripresero a sentirsi orgogliosamente tali. E noi, che da lì non ci eravamo mossi; che ogni 11 settembre guardavamo la nostra ferita sgorgare nuovo sangue; che avevamo rifiutato il concetto di on e off nel nostro amare e rispettare e ringraziare gli Stati Uniti… noi demmo loro il bentornato, e a loro differenza restammo ad amare e ammirare e a ringraziare il popolo americano, anche sotto un Presidente molto diverso da quello che avremmo voluto.
Ora, a noi dispiace perché questi nostri amici americani a intermittenza si stanno preparando a malincuore all’idea di fare una nuova giravolta, e i segnali che ricominceranno a sputare lì dove hanno consumato passione fino a ieri, ci sono tutti: e noi sorridiamo speranzosi non tanto per la loro prevedibile reazione, ma per ciò che la causerebbe. Ma davvero non ci vuole essere polemica: per noi l’11 settembre è stato, è e rimane un momento di riflessione e di testimonianza del nostro amore, della nostra gratitudine e della nostra ammirazione per il popolo americano, e se alcuni si uniscono a noi solo qualche volta li si accoglie volentieri e per il resto … pazienza.
Meno pazienza va dedicata ai complottisti, di varie salse. E’ stato istruttivo qualche giorno fa guardare il documentario (9/11: conspiracy road trip) della BBC che ha preso 5 di questi campioni e li ha portati a farsi spiegare scientificamente e indiscutibilmente i motivi per cui le loro erano fandonie impossibili da giustificare con la realtà, distruggendole pezzo per pezzo con basi inconfutabili e rigorose. A Roma si dice “e nun ce vonno stà”: vuol dire che no, non si crede nemmeno all’evidenza dei fatti, quando si delega all’ideologia anche il compito di vagliare la realtà e analizzare il mondo che ci circonda. E’ stato istruttivo e servirebbe anche a tanti nostri connazionali che si divertono, eccome se si divertono, a coniugare in sempre più caleidoscopiche forme il loro debordante odio per gli Stati Uniti d’America. Non c’è cosa più deprimente di darsi come identificazione ed obiettivo di una vita quello di portare odio, specialmente poi se esso si diffonde rendendosi ridicoli o negando la realtà: e sono 10 anni che lo diciamo, non 10 anniversari che significherebbe un giorno all’anno, ma proprio tremilaseicentocinquanta giorni, consecutivi. Non siamo affatto stanchi, sappiatelo. Non siamo nati l’11 settembre ma una piccola parte di noi quel giorno è morta per poi ritornare a noi, la gente, sotto forma di amore e di una meravigliosa grazia verso le stelle e le strisce, la terra della libertà e la casa dei coraggiosi, da un mare all’altro scintillante mare con l’obiettivo di difendere il diritto alla vita, alla libertà ed al perseguimento della felicità. Ci troverete sempre qui, a difendere la città sulla collina; a celebrare la grandezza del popolo americano e la sua capacità di rialzarsi, sempre; a fare controinformazione quando serve e informazione tutti i giorni, perché questo è il minimo che un grande Paese, una grande città, un grande popolo si meritano. E ce lo meritiamo anche noi tutti, nessuno escluso.