Norquist, l’eroe anti tasse
Grover Norquist è il protagonista di questa stagione politica statunitense. Presidente dell’Americans for Tax Reform, la “lobby anti-tasse” statunitense, ha fatto firmare il “pledge” (promessa) contro l’aumento di ogni forma di tassazione a gran parte dei deputati repubblicani eletti. Il suo sistema è risultato vincente sia nelle elezioni del 2010 di medio termine, sia nelle presidenziali del 2012. Sì, avete capito bene: anche delle presidenziali del 2012. Perché i Repubblicani che hanno firmato il pledge hanno vinto per la seconda volta in 2 anni la maggioranza alla Camera. E, al Senato, hanno ottenuto un risultato che comunque permette loro di esercitare un forte potere di ostruzionismo sulla maggioranza democratica. La fase di stallo che si è avuta nelle votazioni sul “debt ceiling” (il tetto legale al debito pubblico) la si deve a lui. Con buona pace degli opinionisti che ritengono si tratti di “irresponsabilità”, la sua è l’unica possibile linea di difesa dall’aumento delle tasse.
E solo una bassa tassazione, finora, ha permesso all’economia statunitense di sopravvivere alla crisi e ripartire. Norquist, in questi giorni, è ospite, a Roma, del Columbia Institute e del Tea Party Italia. Assieme al deputato Daniele Capezzone, al giornalista Marco Respinti e al portavoce del movimento anti-tasse italiano, Giacomo Zucco, ha esposto il modello-Atr a un attento pubblico italiano. L’Opinione gli ha chiesto prima di tutto, come potrebbe essere esportata questa strategia anche nel “Bel Paese”. «Penso che, se si vuole introdurre un’idea politica nuova, il pledge sia il metodo migliore. Sempre che sia espresso in modo chiaro, semplice e lineare».
Grover Norquist, quale è il meccanismo che permette al pledge di essere una strategia vincente?
Se è chiaro e semplice, gli elettori possono votare per quella determinata istanza. Possono scegliere i candidati che la sposano, perché la sposano. E gli eletti devono sentire la pressione del loro elettorato. Sentire che hanno ottenuto un mandato proprio per quel motivo. Più il pledge è chiaro e semplice, più sarà possibile controllare gli eletti. I politici si muoveranno in quella direzione, perché sanno quanto è popolare. Ci sono tasse di cui nessuno è a conoscenza. Fino a pochi anni fa nessuno sapeva di pagare ancora una tassa sulla Guerra Ispano-Americana del 1898. Ebbene, nessuno se ne lamentava finché qualcuno non ha fatto emergere la notizia e ha costruito una campagna politica su questa tassa. L’opinione pubblica si è indignata per due ragioni: essere caricata di un altro balzello (sulla telefonia, in questo caso) per una guerra finita ormai da più di un secolo e il fatto stesso di non esserne stata informata. L’informazione è dunque fondamentale: se sei consapevole di quali tasse stai pagando puoi indignarti.
In Italia stiamo pagando ancora le accise sulla benzina per la Guerra in Abissinia (1935), ma… se abbiamo un’opinione pubblica che pensa sempre che la soluzione debba sempre e solo arrivare dallo Stato, come è possibile promuovere le idee per una battaglia anti-tasse?
Alcuni uomini d’affari hanno rivoluzionato lo status quo. In economia vige sempre il modello della distruzione creativa: distruggere lo status quo per creare un nuovo mercato. Questo vale soprattutto per la nuova economia, basata sull’innovazione tecnologica. Qui a Roma sono stato guidato fin qui da un autista di Uber, una app per smartphone che permette di prenotare una berlina con autista (che sta facendo infuriare i tassisti proprio in questi giorni, ndr). Ho parlato con il Ceo di Uber, a Washington DC, proprio lunedì scorso. Da casa tua puoi scegliere un’auto, ovunque tu vada, sapere dove si trova, sapere il tempo approssimativo di percorrenza, pagare con carta di credito, ecc… Si tratta di una piccola rivoluzione nel trasporto, resa possibile da un mercato libero e sta attecchendo anche in Paesi, come il vostro, in cui il mercato è altamente regolamentato. Questi innovatori d’impresa hanno bisogno di alleati e li trovano fra i clienti che hanno bisogno dei loro servizi. I social media sono diventati uno strumento straordinario per la diffusione delle nuove idee che nascono nel mercato. Non vale solo per i trasporti, ma anche per il cibo: le nuove catene di fast food hanno sicuramente dato molto fastidio ai vecchi ristoranti, ma hanno ottenuto l’appoggio di masse sempre crescenti di consumatori. Le rivoluzioni procedono così anche nelle idee per il libero mercato: alleanze fra gli eroi dell’innovazione di impresa e la base dei consumatori.
Nei suoi Coalition Meetings dell’Atr, Lei ha incontrato personalità da tutto il mondo. A suo avviso, quali sono i Paesi europei con una mentalità più incline alle idee di libertà?
Ci sono due gruppi di Paesi. In quelli che sono ancora lontani dal baratro, gruppi di opposizione al sistema statalista possono condurre una battaglia culturale per convincere la maggioranza a invertire la rotta, prima che sia troppo tardi. In quelli che sono già sull’orlo del baratro, invece, tutti, anche quelli che non sono mai stati interessati a queste idee o appartengono al gruppo degli statalisti, tendono a risvegliarsi e a chiedere una svolta immediata, prima che sia troppo tardi. La cosa migliore è avere un piano per la svolta, iniziare a sostenerlo e farlo conoscere da subito. Anche quando sembra essere troppo tardi, ci sarà sempre qualcuno che dirà: “lo sapevamo da almeno 10 o 15 anni”, ma l’importante è avere un piano di azione. I Paesi dell’Est europeo stanno facendo le riforme migliori, stanno agendo bene perché si erano spinti molto avanti sulla strada verso il baratro. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, l’Estonia ha compiuto così tanti e drammatici cambiamenti, tagliando tasse e spesa pubblica, perché ha visto, ha toccato con mano, che cosa voglia dire un collasso. Altri Paesi hanno sicuramente più tempo per intervenire. Ma nessun Paese è perso, né irrecuperabile.