Trent’anni di Guerre Stellari
«Io mi rivolgo alla comunità scientifica nel nostro Paese, perché le stesse persone che ci hanno dato la bomba atomica ora volgano i loro talenti alla causa dell’umanità e della pace nel mondo, per darci gli strumenti che possano rendere le armi nucleari impotenti e obsolete». Il 23 marzo di 30 anni fa, nel 1983, il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan, con questo annuncio-shock lanciò la sua più grande sfida militare all’Unione Sovietica: l’Iniziativa di Difesa Strategica (Sdi), a cui fu dato subito il nomignolo di “Guerre Stellari”.
Reagan decise di puntare tutto sulle difese anti-missile, dopo quarant’anni di equilibrio del terrore fondato sulla minaccia di rappresaglia nucleare. «Non sarebbe meglio salvare vite invece che vendicarle? Non siamo capaci di dimostrare le nostre intenzioni pacifiche, impiegando le nostre capacità e il nostro ingegno per costruire una stabilità che sia veramente duratura? Io penso che lo siamo. Dunque: dobbiamo!» I conservatori sono convinti che la Sdi fece crollare l’Urss.
Dopo la Guerra Fredda, i liberal ne parlarono come di un bluff e tuttora lo fanno. Sia l’una che l’altra tesi sono esagerate. Ma di sicuro non fu un bluff: se oggi noi parliamo di armi anti-missile funzionanti, più due intere generazioni di sensori basati nello spazio, lo dobbiamo al programma di Reagan. Il futuro presidente repubblicano iniziò a maturare l’idea di trasformare la strategia statunitense, dalla rappresaglia alla difesa, quando era governatore della California. Nel 1979, in particolare, si recò in visita al bunker del Norad di Cheyenne Mountain (quello reso celebre, anche da noi, dal film “War Games”).
Rimase impressionato soprattutto da una cosa: esisteva la tecnologia per assistere all’eventuale arrivo dei missili sovietici, sapere in anticipo dove avrebbero colpito, ma contro di essi non ci si sarebbe potuto far nulla. Né esisteva alcun programma per farci qualcosa. La nazione che aveva portato l’uomo sulla Luna, non avrebbe potuto concepire una difesa contro armi già vecchie di trent’anni? In realtà, la difesa anti-missile è un concetto antico quanto l’invenzione dei missili stessi. Ma l’impossibilità di centrare esattamente un oggetto così veloce, quale una testata che sta precipitando a velocità iper-sonica sul suo bersaglio, ha fatto sì che le prime difese concepite fossero tutte nucleari.
Solo facendo esplodere una grande bomba atomica nello spazio, o ad alta quota dentro l’atmosfera, si sarebbe potuto sperare di distruggere gli ordigni in arrivo. Ma un’atomica che esplode nello spazio crea un black-out in una grande area sottostante (effetto Emp), mentre l’idea di far esplodere testate nucleari ad alta quota sopra una città, piace obiettivamente a pochi. Piaceva ancor meno l’idea di far detonare una bomba atomica sotterrata, in modo da distruggere le testate in arrivo con la sola forza d’urto del fungo di detriti sollevati. Tutti questi metodi avrebbero inflitto all’America danni gravi, per scongiurarne di ancora peggiori. C’era in ballo anche una questione di costi: per colpire con una certa sicurezza, sarebbero occorsi due intercettori per ogni ordigno nemico.
I sovietici, già dagli anni ’60, erano in grado di montare ben più di una testata su ogni missile. In caso di corsa agli armamenti, avrebbero vinto loro, sfiancando l’America. Proprio per questi motivi, Reagan si affidò soprattutto alle nuove tecnologie laser. Ne sarebbe bastato uno per abbattere un gran numero di missili nemici, invertendo il rapporto di forze (e di costi) a vantaggio del difensore. Nel 1979 ricevette alcune rassicurazioni in questo senso. Il senatore Malcolm Wallop e Angelo Codevilla gli fornirono un primo memorandum sulle armi laser, a cui si aggiunse, poco dopo, anche il paper dell’economista Martin Anderson. Subito dopo la vittoria di Ronald Reagan, su iniziativa di Wallop, il Senato aumentò i fondi per la ricerca sulle armi laser.
Nel frattempo, Reagan diede anche attento ascolto al think tank High Frontier, fondato dal generale in pensione Daniel Graham. High Frontier, che rivendica tuttora la vera paternità della Sdi, promuoveva la difesa anti-missile sulla base dell’idea che fosse già realizzabile con la tecnologia aero-spaziale degli anni ’50. I primi satelliti intercettori, i “Bambi”, furono infatti progettati ai tempi di Eisenhower. E mai realizzati, perché cancellati da Kennedy. Già abbastanza deciso a procedere con un forte programma di difesa, per il presidente Reagan fu fondamentale l’incontro con un uomo fuori dall’ordinario: Edward Teller, uno dei padri della bomba atomica e inventore della bomba H. Teller proponeva una “super-arma” che sarebbe stata in grado di ribaltare i rapporti di forza a favore del difensore in un’eventuale guerra nucleare. Questa super-arma, chiamata “Excalibur”, era ancora solo un progetto.
La stava studiando, da quasi un decennio, Lowell Wood, uno dei fisici di punta del laboratorio nazionale Lawrence Livermore, sotto la responsabilità di Teller. Un primo test, il Diablo Hawk, effettuato nel 1978, era fallito. Ma, paradossalmente, un giovane nemmeno trentenne che odiava le armi nucleari, Peter Hagelstein, mise a punto l’idea e un secondo test, il Dauphin, del 1980 diede un primo risultato promesso: da una singola esplosione atomica si riusciva a isolare (tramite l’uso di radianti) una serie di raggi X, ciascuno dei quali avrebbe potuto abbattere o compromettere il funzionamento di un missile nemico. Di conseguenza, con una singola, piccola, esplosione nello spazio, si sarebbero potuti abbattere fino a un centinaio di missili sovietici. Quando Reagan incontrò Teller per la prima volta, nel settembre del 1982, ebbe l’impressione di aver trovato la soluzione definitiva al problema della difesa anti-missile.
E fu soprattutto per questo che trovò il coraggio di lanciare la Sdi. Dopo un ulteriore lavoro di pressione, ad opera del vice consigliere della Sicurezza Nazionale, Robert McFarlane, sostenitore della strategia difensiva, Reagan si lanciò definitivamente nella nuova avventura. Ma qui inizia il paradosso della storia. Pochi giorni dopo il discorso del presidente, un nuovo esperimento di “Excalibur”, il Cabra Event, diede risultati deludenti. Da lì in avanti vi furono altri 5 test e nessuno diede esiti certi. Teller fu sempre convinto che la nuova arma funzionasse, ma non riuscì a dimostrarlo nella pratica.
In compenso i sovietici ne furono terrorizzati al punto da perdere la ragione. Nel 1985 il Kgb stimò che “Excalibur” potesse abbattere, una volta schierato, il 98% della flotta dei missili sovietici. Nel 1986, convinto che gli americani fossero già a buon punto nella sua realizzazione, Gorbachev fallì nei negoziati di Reykjavik e un anno dopo accettò il ritiro dei missili a raggio intermedio in Europa. Gli americani giocarono sulla paura del nemico e fu questo il “bluff” di cui si parla ancora oggi: “Excalibur” non divenne mai un’arma funzionante, ma provocò effetti politici immensi. Furono altri i sistemi che, invece, pur essendo meno innovativi di “Excalibur” nel loro concetto, hanno realmente rivoluzionato la tecnologia militare. Nel giugno 1984, per la prima volta, un missile abbatté un altro missile nello spazio, senza usare esplosivi, con la sola forza dell’impatto ad altissima velocità: lo “Homing Overlay Experiment”, un programma secondario nell’ambito della Sdi, è alla base di tutte le attuali tecnologie anti-missile.
Le stesse che oggi potrebbero proteggere gli Stati Uniti da un’eventuale attacco nordcoreano, o l’Europa da un possibile lancio di missili dall’Iran. Se ai giorni nostri qualche “Stato canaglia” impazzisce, c’è solo la tecnologia sviluppata ai tempi di Reagan che ci può salvare.