The Italian Job
L’orologio d’oro di Bob Schieffer (Cbs News) sembra aver fatto volare il tempo. Il moderatore con 40 anni di giornalismo alle spalle è impeccabile, un vero arbitro. Il quarto e ultimo dibattito televisivo per le elezioni presidenziali si è concluso in un sostanziale pareggio, ma per la varietà e la complessità dei temi affrontati va di sicuro premiato i candidato repubblicano, meno esperto di politica estera.
I due sfidanti si confrontano su conflitti, rivoluzioni, sicurezza nazionale, terrorismo mentre due o tre tasti in là, sul telecomando, i San Francisco Giants vincono lo spareggio con i St.Louis Cardinals nella semifinale dei playoff di baseball. Gli affari internazionali non sono l’elemento centrale di questa campagna elettorale. A buona parte del popolo americano non interessa cosa accade tremila miglia fuori dai confini americani, la pragmaticità della cultura statunitense limita la loro attenzione a tematiche rilevanti per il vivere in pace e prosperare in patria prima di tutto.
Sia Mitt Romney che Barack Obama avevano a disposizione argomentazioni che potevano far più male all’avversario. Da una parte l’attacco al Consolato di Benghasi in Libia, dall’altra l’uccisione di Osama Bin Laden. Bene, nessuna delle due è stata citata. Si è partiti dal Medio Oriente e proprio sul futuro della regione sono emerse le uniche differenze certe. Un Obama, inizialmente sotto tono, ha ribadito la sua fiducia nelle Nazioni Unite, come strumento di soluzione dei conflitti e delle atrocità commesse in Siria e negli altri paesi colpiti dalla Primavera Araba.
Per Romney la Siria è un’opportunità: Teheran ha Assad come unico alleato e toglierlo di mezzo indebolirebbe la Repubblica Islamica, salvando altre vite. La proposta repubblicana punta a favorire una transizione democratica, sostenendo le forze moderate nel paese. E sotto questo punto di vista i due programmi si somigliano molto. Il candidato repubblicano garantisce che non saranno avviati nuovi interventi militari, ma l’impegno sarà diretto ed esplicito nell’organizzazione istituzionale/politica di Damasco.
“L’America vuole un mondo in pace, non morte” afferma Romney, ma per importi questi principi bisogna essere forti: “è una responsabilità e un privilegio per gli Usa”. Bisogna agire innanzitutto per gli americani stessi, per la prosperità dell’economia, per far studiare i giovani, “per riportare l’attenzione su casa nostra, creare lavoro e ricostruire il nostro paese”. Con tutte le energie necessarie: pertolio, gas, nucleare e ovviamente rinnovabili. Obama parla di un piano di azione che riproporrebbe quanto accaduto in Libia, una volta appurata la natura delle opposizioni siriane, e disegna un futuro libero da interessi economici ed energetici, incentrato su fonti alternative e tutela dell’ambiente.
Il governatore del Massachussets ha meno esperienza, ma in tv mostra un talento naturale, che si evidenzia man mano che il dibattito procede verso temi in cui Romney sembra destreggiarsi senza problemi. Il ruolo della Russia per la stabilità iraniana, la Cina e il commercio internazionale, fino al difficile ritiro dall’Afghanistan. Le idee proposte dal Gop sembrano chiare e dicono ritiro certo entro il 2014.
Romney ha giocato “all’italiana”, sempre in difesa e senza esagerare. Attaccare il commander-in-chief in carica sarebbe stato troppo rischioso, visto che comunque il candidato repubblicano poteva vivere di rendita dopo l’exploit del primo dibattito. Per comunicare agli americani (e al mondo) la propria “visione” di politica estera, l’ultimo dibattito tv non era certo la sede adatta. Mitt può tranquillamente aspettare il giorno del suo insediamento.