Diario Americano/3
GALVESTON, TEXAS – Chiunque entri in politica ha messo in conto di dover assistere a spettacoli non particolarmente edificanti e quindi di dover talvolta mordersi le labbra fino a sanguinare per evitare di entrare in un disastroso giro di schiaffi. Un principio che è valido in tutto il mondo, a quanto pare.
Gli osservatori più o meno professionali della politica a stelle e strisce, specialmente quelli nati e cresciuti in paesi dove il tasso intrinseco di corruzione e doppiogiochismo è da sempre fuori scala, guardano il panorama presente negli USA con un misto di ammirazione e supponenza. Forse perché qui la retorica non è un’arte ormai caduta in disuso, perché un candidato in perenne lotta con la grammatica sarebbe crocifisso in ogni studio televisivo (Di Pietro, anyone?), perché dichiarazioni che a noi scafatissimi navigatori delle torbide e limacciose acque della palude Italia fanno sorridere qui fanno esplodere il pubblico in applausi scroscianti, l’idea è che, in fondo, tutti gli americani siano dei simpatici sempliciotti.
Poi succede che, in una qualsiasi sera della settimana, ti ritrovi nella saletta di una chiesa evangelica ad ascoltare un esperto di diritto costituzionale del Liberty Institute che parla in maniera non proprio elementare di come alcune decisioni della Corte Suprema stiano allontanando il paese da quella che definiscono “Biblical worldview” e ti inizia a venire qualche piccolo dubbio. Sono le sette di sera, quasi tutti i presenti lavorano, ma hanno trovato il tempo di venire in chiesa ed ascoltare una lezione di diritto costituzionale americano.
La sala non è strapiena, saranno una trentina di persone, ma l’evento è comunque ripreso da un operatore, che ha lavorato una vita in radio, con una telecamera Sony ad alta definizione niente affatto dilettantistica, radiomicrofono, treppiede e cuffie da monitoraggio. Chiedo agli amici presenti il perché di questo armamentario sicuramente costoso. Le conferenze vengono riprese, montate e masterizzate su DVD, per poi venderle a chi non è potuto intervenire. Prima e dopo la conferenza è tutto uno “spaccio” di DVD, principalmente documentari prodotti dalla crescente industria della comunicazione conservatrice. Le copertine spesso sono artigianali, ma i dischi no, sono masterizzati professionalmente. Il giro è vorticoso, sembra che queste persone nel tempo libero non facciano altro che informarsi e documentarsi sulle questioni che gli stanno a cuore.
Il rappresentante del Liberty Institute ha sicuramente alle spalle qualche lezione di public speaking, ma qualcosa nella sua cadenza riesce a farmi abbioccare dopo la disquisizione su Roe v Wade, la sentenza che diede il via libera all’aborto. Mi riprendo in pieno quando si parla del “tradimento” del Giudice Roberts nella decisione sull’Obamacare e della sibillina e contraddittoria motivazione data alla sua decisione. Alla fine, spazio per le domande. Dopo anni ed anni di conferenze italiane, inizio a prepararmi ad uscire, prevedendo che le domande saranno poche e facilmente risolvibili. Grosso errore. I membri del gruppo di studio, che la stampa europea definisce sprezzantemente come semi-analfabeti e bigotti, hanno ognuno almeno una domanda, neanche troppo stupida. Uno di questi supposti mentecatti viene fuori ed attacca il Liberty Institute perché, a suo dire, gioca troppo in difesa, lasciando l’iniziativa alla ultra-sinistra dell’ACLU e alle organizzazioni degli atei, finanziate chissà come e che spuntano come funghi ogni qual volta ci sia da attaccare la religione cristiana. Non saranno dei geni, ma sempliciotti non lo sono manco per il cavolo.
Alla fine della conferenza, quasi due ore dopo, ci si ferma a parlare con qualcuno dei partecipanti e le convinzioni cambiano un’altra volta. Interrogati sulle Sacre Scritture, molti di loro sono praticamente delle enciclopedie viventi. Quando gli si parla di argomenti che gli stanno a cuore, citano autori a raffica esprimendo opinioni ben precise ed argomentate. Poi gli parli del discorso di Ratisbona di Papa Benedetto XVI e cadono dalle nuvole. Le nuances del processo di integrazione delle comunità turche e nordafricane in Germania e Francia, il fallimento del modello di convivenza centro-europeo? “Ma la Francia è già stata invasa dai musulmani, no?” Appena esci dalla loro comfort zone, si apre l’abisso dell’ignoranza più totale. Non pretendo che sappiano chi è Scilipoti o la Minetti, ma almeno che Mario Monti è stato il beneficiario di un defenestramento stile Guerra dei Trent’anni mi sembra un’informazione più o meno elementare.
A rendere le cose ancora peggiori, la consapevolezza che questa, in fondo, è un’elite, una ristretta minoranza di persone che almeno provano ad educarsi ed informarsi, finanziando la crescente industria della divulgazione di stampo conservatore. Il resto della popolazione vive in un mondo a tinte pastello fatto di tanto lavoro, macchina, consumismo spicciolo e televisione. Non che l’Italia sia messa meglio, ma fa una certa impressione vederlo qui, dalla parte giusta dell’Atlantico.
Vista da vicino, la punta di diamante del movimento che si è dato come mission il takeover ostile del Partito Repubblicano assomiglia tanto ad un’arma nucleare: potentissima, ma quasi impossibile da controllare. Una volta scatenata la self-righteous rabbia delle centinaia di migliaia di community leaders che mantengono vivo quel paradosso politico chiamato Tea Party difficile sapere dove si fermerà o quale direzione prenderà. Un’arma di distruzione politica di massa, insomma, uno strumento da tempi disperati, adatto forse a questo momento storico, che assomiglia tanto al preludio di un Gotterdammerung wagneriano. L’aria che si respira non è la stessa, pestilenziale mistura di crescente rabbia, impotenza e voglia di capro espiatorio del Vecchio Continente, scombussolato da proteste tanto comprensibili quanto fondamentalmente idiote ed auto-distruttive, ma una sorta di quiete prima della tempesta.
Senza arrivare alla cosiddetta “rapture”, la seconda venuta di Gesù Cristo che porterà con se i Giusti prima della Fine del Mondo attesa in gloria da certi predicatori “fringe”, molti conservatori duri e puri condividono alcune incrollabili certezze, tutte basate, ovviamente, su passi del Vecchio o Nuovo Testamento. Parli di Medio Oriente? “È scritto che prima dell’Armageddon, tutto il mondo si schiererà contro Israele. Quindi anche l’America”. L’Europa in crisi? “Il socialismo non può che portare al totalitarismo. È solo questione di tempo”. Una visione del mondo priva di nuances, ma molto più ragionevole di quanto ci piacerebbe ammettere.
Non tutti i teapartygiani a stelle e strisce condividono questa visione del mondo, in un movimento dalle mille anime è impossibile procedere per assoluti, ma l’ala religiosa e parecchio conservatrice ha deciso di fissare nella pietra queste cose per poi preoccuparsi di altro. Difficile, molto difficile ragionare con persone così determinate e sicure di avere dalla propria parte la Verità con la maiuscola. Da qui alla contrapposizione frontale con la vecchia guardia del GOP, quella che della culture war si è stancata decenni fa e che campava benissimo nel vecchio mondo, fatto di accordi separati, desistenze sottobanco e scambio di favori in commissione.
I veterani della Beltway continuano ad essere terrorizzati dalla prospettiva di fare il passo falso che gli scatenerà contro la macchina organizzativa del Tea Party locale, che potrebbe trovare alleati e risorse inarrivabili per chi non disponga di strutture di supporto coi controfiocchi. Il politico repubblicano medio, quindi, cerca di vivere una doppia vita in stile Arafat: toni durissimi, perentori, zeppi di parole d’ordine quando si visita il collegio elettorale, mentre nelle ovattate sale della Beltway si continua a parlare il linguaggio del compromesso, alternando sparate aggressive con mosse conciliatorie, sempre stando attenti a non farsi beccare.
Inutile dire che questi equilibrismi degni del Circo Medrano spesso non riescono, aprendo il fianco a scivoloni, imbarazzanti inversioni ad U nonché sputtanamenti in luogo pubblico o sui media.
Forse è questo dualismo a rendere quasi impossibile il compito di chi campa descrivendo o cercando di prevedere i movimenti sotterranei o meno della politica americana. Una cosa è certa: la lotta tra le due anime del Partito Repubblicano non si chiuderà in questo ciclo elettorale. Sempre che la posizione di chi pensa che il GOP sia ormai irrecuperabile e che, vista l’emergenza, sia il caso di fargli fare la fine degli altri partiti un tempo potentissimi ma poi eclissatisi dall’arco costituzionale statunitense non prenda forza. Nel breve potrebbe fare un grosso favore ai democratici, ma alla lunga potrebbe avere conseguenze difficilmente prevedibili. Alcuni vanno oltre e dicono che neanche una vittoria di Romney-Ryan riuscirebbe ad evitare la rottura definitiva tra l’universo conservator-libertario e gli amici degli amici della Beltway.
Nelle riunioni cui ho assistito quasi tutti si definivano conservatori, non repubblicani, gente che col partito ha più di un conto aperto e che in presenza di un’alternativa ragionevole non ci penserebbe due volte a mollarlo. Politico avvertito, mezzo salvato. Il GOP sta camminando sul filo del rasoio e molti a Washington sembrano aver dimenticato questa semplice realtà.
Visto che questo capitolo si sta allungando in maniera preoccupante (e che fuori, ad attendere ci sono 30 gradi, sole ed il Golfo del Messico), meglio finire qui la terza parte e lasciare la parte sul rapporto sempre più complicato tra ala movimentista ed establishment del GOP alla quarta parte di questo sempre più sconclusionato diario americano, in arrivo al più presto su questi schermi.