Il BengasiGate di Obama

Si mette male per Obama mentre ci si avvicina al secondo dibattito televisivo, che verterà anche sulla politica estera. E oggi sarà il turno dei candidati vice sfidarsi in tv. Un video rubato può distrarre l’attenzione del pubblico per qualche giorno, ma le responsabilità, quando ci sono, tendono a venire a galla. Erano già emerse da un’approfondita inchiesta del Wall Street Journal, ma ora arrivano conferme anche da vie più ufficiali. In poche ore, davanti ad una Commissione d’inchiesta del Congresso (qui il video) sull’uccisione dell’ambasciatore Stevens a Bengasi, le deposizioni di alcuni funzionari impegnati sul campo inchiodano l’amministrazione alle sue responsabilità: la sicurezza al consolato di Bengasi era «debole e in peggioramento». Nonostante gli attacchi in aumento, nei mesi precedenti, a Bengasi e nel resto della Libia, e le minacce specifiche contro l’ambasciatore Stevens, le richieste di rinforzi sono cadute nel vuoto. Anzi, la sicurezza sarebbe stata ulteriormente ridotta. Perché si voleva dare l’idea della «normalizzazione», è la tesi dei congressmen dell’opposizione repubblicana. Ma una cosa appare certa: l’amministrazione Obama ha sollevato un polverone sulla natura dell’attacco per non ammettere, in piena campagna elettorale, il successo militare di al Qaeda o dei suoi affiliati.

 
Alcuni punti fermi sono emersi con chiarezza, scrive il Wall Street Journal:
1) Non c’è stata alcuna manifestazione contro il famigerato film su Maometto, eppure per oltre una settimana funzionari dell’amministrazione Obama, compresa la rappresentante all’Onu, Susan Rice, hanno continuato a legare l’accaduto alla “rabbia” contro il film. Ma già entro le prime 24 ore era chiara, e nota all’amministrazione, la natura terroristica dell’attacco, come confermato dall’ex capo della sicurezza a Tripoli, Andrew Wood: gli attacchi erano «immediatamente riconoscibili come terroristici» e «quasi me l’aspettavo l’attacco, era questione di tempo».
 
2) Il Dipartimento di Stato ha rigettato ripetute richieste di aumentare la sicurezza della missione in Libia, in particolare la richiesta di tenere un DC-3 di appoggio nel paese. Anzi, l’ha ulteriormente ridotta nei mesi immediatamente precedenti l’attacco. Nonostante la Gran Bretagna e la Croce Rossa, dopo gli attacchi subiti (l’11 giugno il convoglio dell’ambasciatore britannico era stato colpito da una granata da lanciarazzi), avessero deciso addirittura di andarsene da Bengasi. E nessuna misura di sicurezza speciale è stata presa in occasione dell’anniversario dell’11 settembre. Eric Nordstrom, funzionario del Dipartimento di Stato deputato alla sicurezza in Libia fino al luglio scorso, ha ammesso di essersi sentito «frustrato» per la «completa e totale assenza di programmazione» per la sicurezza. L’amministrazione si è affidata completamente al governo libico, che era palesemente «sopraffatto e non in grado di garantire la nostra sicurezza».
 
3) Inoltre, ad attacco in corso la Casa Bianca non ha mai seriamente considerato l’ipotesi di intervenire militarmente a Bengasi, scegliendo invece di rivolgersi solo alla sicurezza libica (che per altro è riuscita a scongiurare un numero di vittime molto superiore). L’ipotesi venne scartata, perché avrebbe costituito una violazione della sovranità libica.
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