Le strade di Reagan

Cento anni fa nasceva Ronald Reagan, il quarantesimo presidente degli Stati Uniti. La data è il 6 febbraio. Trent’anni fa, il 30 gennaio 1981, il Grande Comunicatore entrò per la prima volta alla Casa Bianca. La mattina che ne uscì, a fine gennaio 1989, il suo consigliere per la Sicurezza nazionale Colin Powell, primo afroamericano a ricoprire quel ruolo, gli disse una frase da classico happy ending di un film hollywoodiano: «The world is quiet today, Mr. President». Il mondo era tranquillo.
La frase di Powell era un omaggio al presidente che aveva vinto la Guerra Fredda.

Era un successo ottenuto grazie a un ottimismo incrollabile, a una fede nella superiorità del modello capitalista e alla precisa volontà di diffondere il vangelo della democrazia. Reagan credeva nella libertà individuale, nel libero commercio ed era certo che il fascino del mercato sarebbe stato irresistibile per tutti e ovunque nel mondo.

Reagan è l’uomo che ha fatto sognare l’America, dopo gli anni del “malessere” di Jimmy Carter. Reagan ha invocato una «nuova mattina» per il suo paese e una nuova missione per «la città illuminata sulla collina». L’America di Reagan, come diceva Abramo Lincoln e come ripete anche Obama, è «l’ultima e la migliore speranza dell’uomo su questa terra». Reagan era un entusiasta dell’innovazione e del progresso tecnologico, ma da buon conservatore era anche il sacerdote delle memorie del passato (e il passato, per lui ex democratico e sindacalista, erano anche le conquiste progressiste del New Deal di Franklin Delano Roosevelt).

Ma la Guerra fredda fu vinta anche grazie a un aumento straordinario dell’apparato militare, ai tempi male interpretato dagli oppositori come una folle corsa verso la guerra. Reagan, invece, era ossessionato dal pericolo di una guerra nucleare. Era certo che l’Unione Sovietica fosse economicamente troppo vulnerabile per competere con l’America in una precipitosa e costosa corsa agli armamenti. Definiva Mosca «l’impero del male», tra lo sgomento dell’establishment di politica estera occidentale, perché credeva che il messaggio di libertà e di speranza avrebbe trovato ascolto all’Est e invigorito la dissidenza comunista. Quando individuò in Mikhail Gorbacev l’interlocutore adatto a chiudere il conflitto con i sovietici, andò avanti senza preoccuparsi di chi lo accusava di essere un ingenuo. Margaret Thatcher disse che il grande merito di Reagan è stato quello di aver vinto la guerra senza sparare un colpo.
ggi in America è in corso un revival di Reagan, non solo per le polemiche scatenate dal libro di suo figlio Ron, My dad at 100, secondo cui avrebbe governato il paese sapendo di avere l’Alzheimer.

C’è molto di più. Obama s’è portato in vacanza una biografia di Reagan di 800 pagine, splendidamente scritta da Lou Cannon, dal titolo President Reagan: The role of a lifetime. Tra le proteste di Hillary Clinton, in campagna elettorale Obama aveva detto che Reagan era stato capace di cambiare la traiettoria dell’America. Qualche settimana fa, in occasione della ratifica del trattato nucleare con la Russia, Obama ha rispolverato l’antico adagio sovietico usato da Reagan in occasione delle sue trattative con i sovietici: «Fidati, ma verifica».

Il primo dibattito tra i possibili sfidanti repubblicani di Obama si svolgerà tra due mesi nella Simi Valley, in California. Non in un luogo qualsiasi, ma all’interno della biblioteca dedicata al presidente-attore. Reagan è venerato dai Tea Party. Destra e sinistra lo citano come esempio. I commentatori liberal lo scelgono come modello politico che Obama dovrebbe seguire per garantirsi la rielezione alla fine del prossimo anno.

La destra americana, dopo gli anni del conservatorismo solidale di George W. Bush, sogna di tornare all’epoca mitica del reaganismo. Ai candidati alla presidenza del Partito repubblicano, un paio di settimane fa, è stato chiesto chi fosse il loro eroe politico. «A parte Reagan», naturalmente. A destra, the Gipper (questo era il suo soprannome) non si discute. Al punto che se ne inventano uno non sempre aderente alla realtà.

Sarah Palin non parla d’altro. Le élite intellettuali liquidano l’ex governatrice dell’Alaska come un peso leggero, senza la gravitas necessaria per candidarsi alla presidenza, inadeguata al più alto ruolo istituzionale. La stessa cosa dicevano di Reagan. Ma Palin non è Reagan. The Gipper sfruttò l’aura della celebrità cinematografica per sfondare in politica. Palin sembra interessata al percorso inverso: utilizzare l’allure politica per conquistarsi un ruolo nel mondo dello spettacolo.

Reagan era accusato di essere un attore di serie B, di non conoscere i dossier, di farsi guidare dai suoi consiglieri. A lui dava fastidio che non gli riconoscessero i meriti di una lunga carriera cinematografica, ma era vero che dimenticava nomi e fatti, che non era interessato ai dettagli, che si annoiava ai meeting politici (tanto da interromperli con storielle sui vecchi tempi di Hollywood). Lo accusavano di essere stupido, ma ci fossero stati dubbi la lettura postuma dei suoi diari ha dimostrato il contrario. Reagan si fidava del suo staff, leggeva i mini-memo che gli preparavano, non si separava dei cartoncini con le frasi da ripetere anche nei colloqui personali. Era una scelta. La sua energia e il suo interesse erano concentrati, scrive Cannon, nella performance pubblica della presidenza.

Il giorno che uscì dalla Casa Bianca, Reagan disse ai suoi che durante i due mandati da presidente aveva raggiunto la pace attraverso la forza, ridotto le tasse, abbassato l’inflazione, creato posti di lavoro e tolto di mezzo lo stato dalla vita dei cittadini. «Lo stato è il problema, non la soluzione», era uno dei suoi slogan preferiti. Reagan, però, non ha smantellato il dipartimento dell’Istruzione, ha aumentato la spesa pubblica e ha presentato otto finanziarie in deficit, anche se a metà degli anni 90, con la riduzione delle spese militari resa possibile dalla fine della Guerra fredda, quel rosso è diventato surplus di bilancio.

La ricetta politica di Reagan, scrive Cannon, era semplice: amore per il proprio paese, sfiducia nell’apparato statale, fede nelle nuove opportunità, odio per la regolamentazione dell’economia, idealizzazione del libero mercato. Oggi si riparla di Reagan perché i repubblicani sono alla ricerca di un’identità, ma soprattutto perché Obama deve trovare il modo di governare con un Congresso in parte guidato dall’opposizione, scansando il fuoco amico della sinistra che lo accusa di cedere ai compromessi e gli insulti della destra che lo giudica un sovversivo.

Reagan riuscì con determinazione a unificare il paese contro un nemico, l’Unione Sovietica, in fase calante. Con la guerra al terrorismo islamista, Obama non fronteggia un nemico così potente. Ma deve anche affrontare l’impetuosa crescita di un concorrente, peraltro creditore, come la Cina. Reagan ebbe un rapporto leale e straordinariamente produttivo con lo speaker democratico alla Camera, Tip O’Neill. Assieme rilanciarono l’economia, assicurarono la sicurezza sociale e non fecero mai mancare i fondi per la difesa del mondo libero. Obama sa che è stato questo metodo bipartisan, moderato e rispettoso delle posizioni altrui a consentire a Reagan di chiudere la sua ultima performance con un meritato applauso.

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