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Un padre rifondatore
Molti tra i critici di Ronald Reagan hanno, probabilmente, ragione nel tentare di sfatare il mito costruito attorno alla figura di uno dei più grandi presidenti americani del secolo scorso.
Ricordiamo, tra essi, il teorico del libertarismo Murray Newton Rothbard che esercitò con grande perizia e ferocia l’arma dell’ironia nella sua “Autopsia” e quello che fu considerato come l’ispiratore della politica economica reaganiana, ovverosia Milton Friedman. Nemmeno costui fu molto tenero con l’amministrazione lamentando una sorta di tradimento dei propri precetti monetaristi e l’aumento preoccupante della spesa pubblica.
Eppure, al netto delle censure, un’acquisizione resta indubbia dalla doppia presidenza del Gipper: aver ridato dignità e piena cittadinanza, non tanto nell’iperuranio degli accademici quanto tra l’ordinaria umanità di una straordinaria democrazia, ai principii fondativi dell’esperienza americana riassunti nella mirabile sintesi costituzionale. Primo tra tutti, va da sé, quello della responsabilità individuale,vera architrave di ogni possibile esercizio di libertà e ricerca della felicità.
Oggi, in tempo di crisi forse irreversibile del leviatano statale, ci sembra quasi normale minimizzare l’inaudita e temeraria asserzione dell’uomo più potente del più potente stato mondiale secondo la quale “lo stato non è la risposta ai problemi, ma il problema stesso”. Ma, in un futuro non lontanissimo, queste parole ci ricorderanno l’inizio del crollo di quella bastiglia gigantesca nata con il nobile scopo di assicurare ad ogni uomo pace, prosperità e benessere e trasformatasi in un carcere dove languono il talento, la creatività, l’indipendenza.
Dalle mura turrite, non più impenetrabili, ad un altro Muro, quello di Berlino, che separava due mondi ideologicamente inconciliabili: il libero occidente, pur con tutte le proprie tentazioni welfariste, ed il regno del dispotismo socialista. Anche qui regna la convinzione generale che la fine della tirannia sarebbe venuta da sé per l’insostenibilità e la fallacia di un modello economico e sociale fallimentare. Basterebbe citare l’opera e i convincimenti di due genii, a lungo negletti della scienza economica, quali Eugen Bohm-Bawerk e Ludwig von Mises ad asseverare quest’assunto.
Ma la determinazione con la quale Reagan perseguì lo scopo di indebolire l’avversario ne accelerò senza dubbio l’inevitabile sfacelo finale. E questo fu merito indiscutibile, anche se a prezzo di un aumento enorme del deficit federale.
Rimane da dire della parte forse più caduca dell’opera sua: il capitolo delle libertà individuali. La War on Drugs dispiega oggi i suoi effetti più mefitici: la polverina diabolica, un tempo solo facile scorciatoia verso i paradisi artificiali è divenuta principale risorsa finanziaria di un terrorismo globale che ha dato prova di immensa capacità distruttiva, causa scatenante di una sanguinosissima guerra ai confini della repubblica e, non ultimo, motivo di privazione della libertà per una buona parte dei due milioni di detenuti nei penitenziari americani.
Lo stesso Friedman ed il mentore di Reagan, quel Barry Goldwater che lo scelse come principale collaboratore nella sua sfortunata corsa alla Casa Bianca del 1964, avevano tentato di dissuadere l’ex-attore da questa mossa più degna di un John Wayne che di un amministratore, Ma , a volte, la vita finisce per non assomigliare ad un film e questo, evidentemente, fu uno di questi casi.
Fatta un po’ la tara tra pregi e difetti, vittorie e sconfitte un bilancio con più luci che ombre. Sopratutto, lo ripeto, per la capacità di aver saputo evocare dei miti che poi sta anche ad ognuno di noi tentare di trasformare in realtà.