Millennial Generation

Da Il Foglio di ieri, la terza (e ultima) puntata di una mia inchiesta sulle dinamiche geografiche e demografiche della politica statunitense, in vista delle prossime elezioni presidenziali del 2012. Questa volta si parla della “millennial generation”, con un accenno alla sfida geografica del futuro: Texas vs. California.

Li chiamano in molti modi diversi: Echo Boomers, Generation Next, Net Generation o Generation Y, a seconda delle inclinazioni culturali di questo o quell’analista. Ma il soprannome più utilizzato è anche il più evocativo. Sono la Millennial Generation, la “generazione del millennio”, composta da chi è nato negli anni che vanno, più o meno, dal 1980 al 1998. Dalle elezioni di midterm del 2006, i Millennials hanno iniziato ad avere un impatto significativo nella politica a stelle e strisce. Tanto che molti hanno visto in loro i principali artefici della rimonta democratica che ha caratterizzato le tornate elettorali precedenti a quella del 2010.

Alle presidenziali del 2008, in particolare, il dominio di Barack H. Obama nella fascia di elettorato compresa tra i 18 e i 29 anni (due voti su tre) ha consentito al candidato democratico di ottenere una vittoria piuttosto larga malgrado il sostanziale equilibrio raggiunto da John McCain negli altri segmenti demografici. Spinti da un’aggressiva campagna per aumentare il turnout del voto giovanile, i millennials si sono presentati in massa alle urne. E in massa hanno scelto il candidato del “change”. Se quattro anni prima 20 milioni di giovani avevano partecipato al voto (4 milioni in più rispetto al 2000), preferendo John Kerry con un margine di 9 punti percentuali nei confronti di George W. Bush, nel 2008 questo numero è arrivato a sfiorare i 25 milioni. E Obama è riuscito a conquistarne il 68 per cento, contro il 30 per cento di McCain. Senza il voto dei millennials, stati come Ohio, Virginia, Florida, North Carolina, Nevada e Indiana sarebbero molto probabilmente scivolati nella “colonna rossa”, provocando un risultato sul filo di lana simile a quello del 2000.

I VENDICATORI DEI “BOOMERS”

Irrimediabilmente attratti dal “mito demografico”, dopo le elezioni del 2006 e del 2008 gli analisti e i commentatori della sinistra americana hanno “marchiato” la Millennial Generation per l’eternità, considerandoli come lo strumento per la definitiva realizzazione della rivoltà culturale degli anni Sessanta. I figli dei “baby boomers”, insomma, sarebbero destinati a riuscire dove i loro padri avevano fallito. Secondo la vulgata progressista, i millennials avrebbero una spiccata vocazione comunitaria, un approccio molto liberal nei confronti dei temi sociali e una forte inclinazione a sostenere l’agenda politica ambientalista. Il sogno di qualsiasi attivista democratico, dunque, tanto che il think-tank “Center for the American Progress” li ha definiti la “Progressive Generation” in uno studio in cui viene sottolineato come la maggioranza dei giovani tra i 18 e i 29 anni “crede che il governo possa essere un fattore positivo per l’economia e che maggiori investimenti nella sanità e nell’educazione siano necessari per garantire una crescita economica forte e sostenibile”. Nel libro “Millennial Makeover: MySpace, YouTube, and the Future of American Politics”, Morley Winograd e Michael Hais sostengono che la tendenza di voto delle nuove generazioni a favore del partito democratico potrebbe addirittura annunciare quel tanto sospirato”riallineamento” verso sinistra che dovrebbe riportare la politica americana ai rapporti di forza raggiunti da Franklin Delano Roosevelt negli anni Trenta. Poi è arrivato il novembre del 2010.

IL RIFLUSSO

I primi segnali erano arrivati con le elezioni del 2009 in Virginia, New Jersey e Massachusetts, in cui il turnout giovanile era stato insolitamente basso. Poi, nel maggio 2010, un sondaggio commissionato dal National Journal aveva scoperto che soltanto il 45 per cento dei millennials continuava a sostenere l’agenda politica dell’amministrazione Obama (contro il 73 per cento di inizio mandato). E che meno della metà aveva in programma di votare per il partito democratico alle elezioni di midterm (contro il 60 per cento del 2006 e il 68 per cento del 2008). Questi segnali negativi sono diventati una solida realtà alla prova delle urne, con un turnout praticamente dimezzato rispetto a due anni prima che ha spianato la strada al miglior risultato elettorale per il GOP da decenni. “Il motivo principale di questo netto cambiamento è, molto probabilmente, l’economia – scrive Joel Kotkin sulla rivista Forbes – La recessione ha avuto un impatto particolarmente pesante sui lavoratori più giovani, tra cui il tasso di disoccupazione è arrivato al 20 per cento. Ha colpito soprattutto gli operai, ma non ha affatto risparmiato i neo-laureati, che sono una delle parti essenziali dell’elettorato obamiano”.

SULLE ORME DEI PADRI?

In assenza di un rapido miglioramento della situazione economica, il dna progressista dellaMillennial Generation potrebbe subire una repentina mutazione. Negli anni Settanta, una crisi simile accompagnò  i boomers che stavano entrando in massa nel mercato del lavoro. E questa circostanza cambiò per sempre il destino politico di quella generazione. La disastrosa presidenza di Jimmy Carter e la prosperità dell’era reaganiana spostarono progressivamente i boomers su posizioni più conservatrici, portando benefici elettorali sia ai repubblicani che ai democratici moderati come Bill Clinton. Con i millennials potrebbe accadere qualcosa del genere, anche se le differenze con i boomers sono molte, quasi tutte a favore dei democratici. Secondo uno studio del Pew Research Center, per esempio, il 63 per cento dei millennials crede che la società debba accettare senza problemi lo stile di vita omosessuale (contro il 40 per cento dei boomers). Ma il dato che dovrebbe preoccupare maggioramente i repubblicani è l’atteggiamento nei confronti dell’intervento statale nell’economia. Nello studio Pew, quasi due terzi dei millennials si dichiara favorevole ad una espansione del ruolo del governo, mentre nelle generazioni precedenti questa percentuale è praticamente dimezzata.

Come però sottolineano John Petrocik e Daron Shaw nel loro “Unconventional Wisdom: Facts and Myths About American Voters”, i democratici non devono compiere l’errore di considerare come definitivi questi numeri: “L’elettorato al di sotto dei trent’anni è uno dei segmenti con il minor grado di attaccamento nei confronti dei partiti. Si tratta di un elettorato estremamente volatile, conosciuto per suo debolissimo spirito partigiano”. Se poi, come auspica Matthew Continetti sul “Weekly Standard”, i repubblicani trovassero finalmente il coraggio di “abbracciare la gioventù, la tecnologia e la diversità, enfatizzando la loro agenda free-market, il GOP potrebbe essere in grado di convincere i millennials che non tutte le risposte ai problemi della società contemporanea si nascondono tra le pieghe dell’ideologia liberal“. Ma è ancora una volta Kotkin a sottolineare l’elemento potenzialmente più rischioso per i democratici: “L’intervento dello stato nell’economia è senz’altro un’idea molto più attraente se non si è costretti a pagare le tasse. Dopo il compimento dei trent’anni, in genere, si tende a cambiare radicalmente idea. Se l’attuale espansione del settore pubblico continuasse a dimostrarsi inefficace nel creare posti di lavoro, anche i millennials, come hanno già fatto i boomers prima di loro, potrebbero trovarsi a preferire un approccio più orientato verso le logiche del libero mercato”. Non è impossibile convincere i millennials a cambiare partito: basta convincerli che il mercato funziona meglio delle tasse e del welfare.

IT’S THE ECONOMY, STUPID!

Nel 2008, con l’elezione di Obama, si è consumato il trionfo della “classe creativa” celebrata qualche anno fa dal guru dell’urbanistica progressista Richard Florida (e che David Brooks, con una punta di sarcasmo, ha ribattezzato “bourgeois bohemians”). Alla classica coalizione democratica, formata dalla upper-class concentrata nei grandi centri urbani, sulle coste e intorno alle università, dai cittadini dipendenti dal welfare, dai dipendenti pubblici e dalla quasi totalità della comunità afro-americana, Obama è riuscito a sommare un numero sufficiente di voti della middle-class suburbana da garantirsi una strada in discesa verso la Casa Bianca. Ma nei primi due anni della sua presidenza i principali beneficiari delle sue politiche monetarie e fiscali sono stati Wall Street (+30%), le grandi imprese finanziate da stocks e bonds (+40%), la “classe creativa” insediata nelle fortezze di Manhattan, Boston e San Francisco, il mondo dell’arte, dello spettacolo e delle università finanziate con il denaro pubblico, le aziende amiche della Silicon Valley. Non è un caso se la classe media, abbandonata in fretta dopo la luna di miele, si sia rivoltata contro il partito del presidente alle elezioni di midterm del 2010. Questo elettorato, in maggioranza bianco, concentrato nelle zone interne del paese, suburbano e politicamente indipendente, ha visto peggiorare sensibilmente la propria condizione economica sotto il governo di Obama.

Il problema, per i democratici e per il presidente, è che si tratta di una grande fetta della popolazione americana: 35 milioni di nuclei familiari, che guadagnano tra i 50mila e i 100mila dollari all’anno; altri 15 milioni che ne guadagnano tra i 100mila e i 150mila. Insieme, questa parte dell’elettorato supera di gran lunga i numeri delle fasce più povere della popolazione e della “classe creativa”. In più, gli americani – giovani e non giovani -stanno lentamente rendendosi conto che il ritmo della recessione non è uguale dappertutto. Kotkin ha compilato una lista delle dieci città statunitensi che stanno uscendo più rapidamente dalla crisi: “Le città, molte delle quali si trovano negli stati governati dai repubblicani, si possono dividere in tre categorie principali. C’è Texaplex (Austin, Dallas, San Antonio e Houston), che è diventata la destinazione numero uno per chi è in cerca di lavoro, grazie ad un forte settore energetico e ad un fortissimo spirito imprenditoriale. Ci sono le nuove Silicon Valley (Raleigh e Durham in North Carolina, Salt Lake City e il nord della Virginia), che offrono lavoro ben pagato nel settore dell’alta tecnologia e prezzi delle case molto inferiori a quelli che si possono trovare in California. Poi ci sono le Heartland Honeys (Oklahoma City, Indianapolis e Des Moines, nell’Iowa), che stanno rinascendo grazie ad una congiuntura favorevole nel settore agricolo e alla trasformazione del settore industriale”.

Mentre le politiche di Obama ingrassano Wall Street e peggiorano le condizioni della classe media, insomma, il governo locale dei repubblicani sembra favorire il tessuto imprenditoriale necessario a far ripartire l’economia reale. Siamo alle solite: Keynes contro Hayek. Uno scontro ideologico secolare, che ha trovato anche una sua sublimazione geografica.

TEXAS vs. CALIFORNIA

L’Economist aveva lanciato il tema già nel luglio del 2009: “Il futuro dell’America, Texas contro California”. I due più grandi stati dell’Unione, scriveva la rivista britannica, sono come due “gemelli diversi” del West. Con il Lone Star State ad insidiare la storica supremazia californiana. Dopo quasi due anni, la sfida è diventata ancora più interessante. E sempre più squilibrata. Il Texas ha prodotto più della metà dei posti di lavoro creati negli Stati Uniti tra l’estate del 2009 e l’estate del 2010. La California, al contrario, ha perso oltre 120mila posti di lavoro. Il Texas ha un tasso di disoccupazione molto al di sotto della media nazionale (8 per cento). In California si viaggia verso il 13 per cento, con picchi disastrosi nelle aree urbane di Los Angeles e Oakland. In Texas, dal 2000 al 2010, i posti di lavoro nel settore “S.T.E.M.” (Science-Technology-Engineering-Mathematics) sono aumentati del 14 per cento. In California si è arrivati a stento al 2 per cento (circa la metà della media nazionale). In Texas la spesa pubblica rappresenta il 17 per cento del PIL. In California supera il 25 per cento. I due sistemi fiscali, poi, non sono quasi paragonabili. In Texas l’unica imposta sul reddito personale è quella federale. In California la PIT (Personal Income Tax) oscilla tra il 7 e il 10 per cento (oltre a quella federale). In Texas, inoltre, non c’è traccia di imposte su redditi d’impresa o sui capital gain.

Mentre la California del welfare progressista sembra avviata verso la bancarotta, il Texas – duro e liberista – continua a crescere nonostante la più grande crisi economica degli ultimi decenni. E questo sta provocando un flusso costante di emigrazione interna verso il Lone Star State, che si è accentuato dopo il 2008. Se nel 2012 i cittadini statunitensi decideranno di votare, nelle urne, con lo stesso metodo che stanno utilizzando per “votare con i piedi”, il primo mandato di Obama potrebbe anche essere l’ultimo.

(da Il Foglio del 2 marzo 2011)

(3/Fine)

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