La non festa italiana
E’ stato il giorno della retorica, giustificata, e di un patriottismo riscoperto con qualche anno di ritardo. Doveroso, per l’amor del cielo ma questa festa nazionale che debutta nel giorno del suo 150esimo compleanno, pone alcuni interrogativi ormai ineludibili.
Ieri abbiamo ricordato con enfasi non usuale per queste latitudini, le mille ragioni di un’unione che appare forte sulla carta ma debole quando si affronta la realtà di ogni giorno. Un paese vero che non è fatto di garibaldini, di patrioti, di statuti albertini ma che è la somma disomogenea di imprese, posti di lavoro, variazioni di pil, aspirazioni al miglioramento sociale. In questo paese non esiste una festa che davvero accomuni tutti: il 25 aprile non lo è, colpa di alcuni fascisti di ritorno e degli antifascisti di mestiere; così come non lo è il 2 giugno che celebra, con ogni probabilità, la madre di tutte le divisioni (nord contro sud, monarchici contro repubblicani).
Questo 17 Marzo poteva, insomma, mettere tutti d’accordo. Non è stato e non sarà così. Primo perché si celebra una non-unità, considerato che a quella data moltissimi territori non erano italiani. Secondo, ed è molto più contingente e per questo lampante, perché è stata l’ennesima parata di una fazione contro l’altra. I fischi a Berlusconi, le manifestazioni di partito, La Russa che non può parlare, i leghisti che non festeggiano: non c’è nulla, ma proprio nulla, che possa richiamare ad un minimo di memoria condivisa. La reductio ad unum in cui gli italiani riescono meglio è quella politica, capaci come siamo di complicare tutto e poi di semplificarlo, magicamente, dipingendo ogni questione come una battaglia tra destra e sinistra, berlusconiani e non, amanti della costituzione e critici, autonomisti e centralisti. E’ così -si dirà -dai tempi dei guelfi e dei ghibellini ma è quanto meno stucchevole che le divisioni si ripetano sempre uguali a se stesse e che, al netto del progresso economico globale, questo paese continui a portarsi dietro i problemi di sempre.
Solo un pazzo potrebbe definire il nostro un paese unito. Non lo è geograficamente, non lo è politicamente, non lo è costituzionalmente con un documento nato da un compromesso storico non frutto di sintesi ma di scontro ideologico. Potrebbe non essere un problema, se non fosse che i segnali indicano una divaricazione costante delle divisioni e del gap tra territori. La Germania unificata ha colmato larga parte delle differenze tra Est e Ovest in 15 anni. Noi, in un periodo dieci volte superiore, abbiamo battuto ogni record in fatto di spesa pubblica improduttiva e di sprechi a vario titolo contabilizzati. Non bastasse questo, quando potremmo fermarci un secondo a riflettere e a cercare condivisione, finiamo per dividerci ulteriormente, magari a geometrie variabili.
Ieri abbiamo festeggiato e oggi, fossimo un paese vero, dovremmo porci alcune domande e iniziare ad elaborare qualche risposta. Il problema è che abbiamo festeggiato rinchiudendoci nel ghetto delle militanza oltranzista e declinando ogni invito a ricercare soluzioni comuni per problemi comuni. Difficile pensare che oggi qualcuno si svegli dal torpore e pensi al bene del paese prima che a quello della sua parte politica.