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Dittatura dei migliori
L’appello lanciato da Giuliano Ferrara dalle colonne de Il Foglio e dalla trasmissione Radio Londra non è da prendere come l’ultima goliardata di un “alfiere di Berlusconi” perché il pericolo che vi viene sottolineato è realmente presente in forme più o meno marcate tra gli oppositori di Berlusconi. L’articolo di Asor Rosa non è che la punta dell’iceberg di una corrente di pensiero che da alcuni anni da sotterranea sta uscendo sempre più alla luce del sole. L’aria che si respira, dalla kermesse di Libertà e Giustizia al Palasharp alla più recente Biennale Democrazia, è quella di una vera e propria rivoluzione etica che nell’invito ad una “prova di forza dall’alto” trova la sua ultima e più evidente manifestazione.
L’idea, da non prendere sottogamba dato che ogni giorno sembra trovare sempre più proseliti, è che esistano degli italiani “giusti” che devono prendersi il compito di salvare la democrazia minacciata dall’incapacità di “altri” italiani di saper discernere le cose giuste da quelle sbagliate. In questo filone si ineriscono tutte le abusate teorie secondo le quali Berlusconi fonderebbe il suo successo elettorale unicamente grazie alle sue televisioni che renderebbero una parte d’Italia incapace di prendere delle decisioni “corrette”.
Il punto a cui prestare attenzione è quindi che quello che viene proposto non è un’idea politica alternativa, bensì un’idea di morale, di eticità. Un gruppo di persone eticamente probe da contrapporre ad una maggioranza ritenuta non autosufficiente. Questa idea non è nuova nella Vecchia Europa, basta tornare indietro di qualche secolo per trovare la rivoluzione etica per eccellenza ovvero quella Francese. Robespierre infatti, prima di pensare a se stesso come un fine politico, si autodefiniva “l’incorruttibile”; succedeva cioè che la propria virtù morale veniva anteposta a quella politica.
La storia stessa di quella rivoluzione ci rende evidente come sia breve il passo che intercorra tra una ristretta élite, che si concepisce come l’unica depositaria dei reali interessi del popolo, e la dittatura del partito. Perché quando un ristretto gruppo di intellettuali si ritiene capace di interpretare e tradurre in politica i veri interessi del popolo, più del popolo stesso, diventa impossibile concepire una forma di opposizione. Perché qualsiasi forma di opposizione diventa, per definizione, qualcosa contro il “buon governo”; una deviazione dai principi morali che fondano la politica.
Robespierre stesso affermava che: “Nel sistema instaurato con la Rivoluzione Francese tutto ciò che è immorale è impolitico, tutto ciò che è atto a corrompere è controrivoluzionario. Le debolezze, i vizi, i pregiudizi sono la strada della monarchia”. Il problema che si pone però è questo: chi decide cosa è morale e cosa immorale? Chi decide cosa è debolezza e cosa è virtù? La risposta è da ricercare in quella élite culturale di cui parlavamo prima.
Da notare a questo proposito l’abissale differenza con l’altra rivoluzione per eccellenza ovvero quella Americana la quale non aveva nessuna intenzione di creare un governo “eticamente puro” bensì di porgli dei limiti ben definiti. Una rivoluzione pluralistica quindi, dove trovavano la loro più compiuta espressione, per quel periodo, concetti come autogoverno, libertà e autonomia della società rispetto al potere politico. In America perciò, una volta creata la repubblica, non fecero la loro comparsa sui giornali lettere di comuni cittadini che si accusavano l’un l’antro di essere dei “nemici del popolo” come successe dall’altra parte dell’Oceano.
La storia da sempre ci insegna a prestare bene attenzione nei confronti di chi si presenta a guidare un rinnovamento in nome della moralità e dell’eticità, lasciando la politica in secondo piano, come un problema da affrontare in un secondo momento, una volta compiuta la presunta moralizzazione della società. Per questo, come afferma Ferrara, non abbiamo bisogno di colonnelli ma, aggiungo io, di politici: facciamo tornare finalmente al centro la politica, lasciamo fuori il resto.