Alle tre del mattino, Obama era sveglio

Alla fine, per suprema ironia della storia, quella che sembrava essere la sua vulnerabilità più evidente – la politica estera – potrebbe trasformarsi nella sua ancora di salvezza. E garantirgli la rielezione nel novembre del 2012. C’è poco da girarci intorno: l’uccisione di Osama bin Laden per mano di un’unità d’élite dei Navy Seals, a pochi chilometri dalla capitale pachistana Islamabad, rappresenta uno straordinario successo (soprattutto d’immagine) per il presidente statunitense Barack Obama. In un momento in cui la sua corsa verso la riconferma alla Casa Bianca, pur in assenza di concorrenti particolarmente insidiosi in campo repubblicano, sembrava appesantita da sondaggi zoppicanti , da un quadro economico ancora appannato e dagli evidenti balbettii di una politica estera che non riusciva a trovare un equilibrio comprensibile tra derive terzomondiste, aspirazioni ecumeniche e sbandate neo-neocon. A complicare il tutto era arrivato anche l’intervento militare in Libia, di cui i cittadini americani non hanno capito le motivazioni e che continua ad avere l’indice di approvazione più basso di ogni conflitto in cui sono stati coinvolti gli Stati Uniti dai tempi del Vietnam.

Il cadavere di Osama bin Laden, almeno per ora, sana tutte queste ferite. E’ da mettere in conto, c’è da scommetterci, un fiorire incontrollato di teorie cospiratorie in merito. Il flop della foto falsa diffusa dalla tv pachistana è soltanto l’inizio: spunteranno siti Internet specializzati per risolvere il mistero della salma “sepolta in mare”; tornerà a parlare chi è convinto che Osama, in realtà, sia morto da anni, come chi è convinto che sia ancora vivo e vegeto e abiti a Parigi insieme a Jim Morrison e Moana Pozzi. Neppure il test del dna convincerà gli scettici di professione. E neppure la crudezza dei fatti farà cambiare idea a chi ritiene Obama un jihadista in incognito arrivato dall’Indonesia per distruggere le fondamenta dell’Impero americano. Ma nessuna di queste schegge impazzite che compongono il complesso mosaico della società dell’information overloadpuò cambiare, più di tanto, il mondo reale. E, nel mondo reale, gli Stati Uniti dell’amministrazione Obama hanno avuto la meglio su un terrorista che inseguivano spasmodicamente da un decennio e che si era reso responsabile della morte di migliaia di innocenti.

“Sono trascorsi quasi dieci anni – ha detto il presidente nel suo discorso di domenica sera (in Italia era notte fonda) – da quando un luminoso giorno di settembre è stato oscurato dal peggiore attacco al popolo americano nella sua storia. Le immagini dell’11 settembre sono cicatrizzate nella nostra memoria nazionale: gli arei dirottati che irrompono nel cielo senza nuvole di settembre; le Twin Towers che collassano al suolo; il fumo nero che fluttua sul Pentagono; la carcassa del Volo 93 a Shanksville, Pennsylvania, dove le azioni eroiche di alcuni cittadini hanno evitato ulteriore dolore e distruzione”. E’ un Obama concentrato e in sintonia con l’America mainstream, quello che prende la parola nella East Room della Casa Bianca. E sembra un lontano parente del presidente distaccato e snob che ha attraversato con difficoltà la prima parte del suo primo mandato, appellandosi alle virtù sfumate della diplomazia internazionale e alla necessità di “chiedere scusa” per gli errori del passato. La sua è una retorica potente, che parla di “coraggio e capacità” delle forze speciali che hanno condotto l’operazione e si appella alla “grandezza della nazione” e alla “determinazione del popolo americano”. Sembra quasi di ascoltare il miglior George W. Bush, il presidente che l’11 settembre lo ha vissuto sulla propria pelle e che la “war on terror” l’ha lanciata e difesa contro le resistenze dell’opinione pubblica internazionale. E che ieri – con una classe che dovrebbe far riflettere anche i suoi detrattori – si è congratulato con il presidente in carica e con i militari che hanno partecipato alla missione. “La guerra contro il terrore va avanti – ha scritto Bush nel suo messaggio – ma stanotte l’America ha lanciato un messaggio inequivocabile: non importa quanto tempo sia necessario, alla fine la giustizia arriva”. E proprio invocando il sogno americano di “libertà e giustizia per tutti” Obama ha concluso il suo discorso di domenica.

Niente male per un candidato che, durante le primarie democratiche, la stessa Hillary Rodham Clinton aveva irriso con lo spot delle “tre del mattino”, in cui venivano messe in dubbio (non senza qualche ragione) le doti e l’esperienza necessaria per affrontare un’improvvisa crisi internazionale, magari arrivata nel cuore della notte. Alle tre del mattino, invece, Obama si è fatto trovare sveglio. Ed è giusto che adesso possa raccogliere i frutti politici di questa vittoria. Con che coraggio, ora, i repubblicani potranno utilizzare l’arma del “soft on terror” durante la campagna elettorale?

Il problema, semmai, è che questo trionfo è arrivato troppo presto per essere sfruttato pienamente in vista della corsa alla Casa Bianca. Frenerà certamente l’emorragia di consensi che aveva colpito il presidente, ma difficilmente – a più di un anno e mezzo dalle elezioni presidenziali – potrà rappresentare un fattore decisivo per il 2012. Gli ostacoli sono ancora molti: un’economia che stenta a riprendersi; il danno provocato dall’insensata orgia dei bailout; una riforma sanitaria che i cittadini americani continuano a rifiutare; un partito democratico ormai spaccato in due tra “massimalisti” e “moderati”. Intanto, però, Obama ha dimostrato di non essere un Jimmy Carter qualsiasi.

(oggi in edicola su Il Tempo)

UPDATE. “Cheney’s assassination squad just killed bin Laden”

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