Un capolavoro. Anzi, no
Come apertura di campagna elettorale, non ci sono dubbi, Obama non poteva sperare in una partenza migliore. La morte di Bin Laden ha frenato un calo di consensi preoccupante e raffreddato la retorica più accesa del partito repubblicano in politica estera, rafforzando l’immagine del presidente e avviando una “narrativa” che molti analisti giudicano come potenzialmente vincente in vista delle presidenziali 2012. Alla perfezione dell’operazione militare che ha portato all’uccisione del leader di Al Qaeda, però, si è quasi subito contrapposta una gestione della comunicazione “post-Bin Laden” che ha lasciato perplesso più di un osservatore.
Stephen Green, su Pajamas Media, ricorda la scena finale del film “Il Candidato”, Oscar per la miglior sceneggiatura originale nel 1973, in cui Robert Redford, che interpreta l’appena eletto senatore Bill McKay (ispirato, senza nasconderlo troppo, a Robert F. Kennedy), si gira verso lo spettatore e mormora: “E adesso, cosa facciamo?”. Dopo l’enorme sforzo profuso per vincere le elezioni, McKay non sembra avere la più pallida idea di cosa lo aspetti nella vita politica reale. Ecco, la strategia di comunicazione successiva al blitz dei Navy Seals in Pakistan, che pure il Team Obama deve aver necessariamente pianificato con buon anticipo, è sembrata oggettivamente amatoriale, quasi ai limiti dell’incompetenza. Come scrive il perfido Green, “sembra un suono che assomiglia sempre di più al karaoke, come un coro notturno di ‘My Way’ cantato da avventori troppo ubriachi per ricordare tutte le parole”.
L’invettiva di Green è probabilmente troppo dura, ma si regge su un fondamento di verità. Prima la stranezza del cadavere gettato in mare seguendo una bizzarra e non meglio identificata “tradizione islamica”, che pur rispondendo alla giusta esigenza di non creare un luogo di pellegrinaggio jihadista, ha contemporaneamente indispettito chi (in America) ha pensato che la salma sia stata trattata con un rispetto esagerato e chi (nel mondo arabo) ha gridato al sacrilegio. Poi i continui e snervanti cambiamenti nella ricostruzione degli eventi. John Brennan, Leon Panetta, lo stesso Barack Obama, fonti ufficiali e ufficiose del Pentagono, della CIA e del Dipartimento di Stato: ognuno ha diffuso versioni leggermente diverse della storia. Tanto da costringere il nuovo portavoce della Casa Bianca, Jay Carney, ad ammettere martedì durante l’ennesima conferenza-stampa di “rettifica” – a più di 48 ore dal termine dell’operazione – di sentirsi “confuso”.
Bin Laden era armato. Anzi, no. Ha usato una delle mogli, provocandone la morte, come scudo umano durante la sparatoria. Anzi, no. Anzi, la moglie è solo ferita ad una gamba. Uno dei figli di Bin Laden è stato ucciso. Anzi, no. L’elicottero perso durante la missione ha avuto problemi tecnici. Anzi, è stato colpito. Anzi, è atterrato male. Il Pakistan sapeva tutto. Anzi, no. Le foto del cadavere di Bin Laden verranno certamente rese pubbliche. Anzi, no. Obama, insieme ai membri più fidati del suo staff, ha assistito in diretta al live-feed dell’operazione dalla “situation room” della Casa Bianca, come testimonia la foto di gruppo che ha conquistato le prime pagine dei giornali di tutto il mondo. Anzi no, c’è stato un black-out di circa mezz’ora e nessuno ha visto niente (cosa guardavano, allora, nella foto?).
La lista delle incongruenze e delle rettifiche potrebbe continuare a lungo. E già sta alimentando i serbatoi estremamente infiammabili dei cospirativisti di tutto il mondo. Da quelli che non credono tout court alla morte di Bin Laden a quelli che da qualche giorno sui blog della destra americana -spinti dalle “rivelazioni” di un misterioso “Washington Insider” – cercano di far passare una narrativa diversa da quella ufficiale: Obama sarebbe rimasto indeciso fino all’ultimo momento sull’opportunità o meno di dare il via libera al blitz, frenato dalla ritrosia della sua senior adviser Valerie Jarrett, trovandosi alla fine quasi “scavalcato” dal decisionismo di Hillary Clinton e Leon Panetta. Fantascienza, senza dubbio, ma fantascienza resa verosimile dal dissonante coro comunicativo partito dalla Casa Bianca dopo il successo dell’operazione militare.
I più maligni spiegano proprio con questa carente gestione della comunicazione il modesto “rimbalzo” ottenuto dal presidente nei sondaggi condotti dopo il primo maggio. Gli istituti di ricerca, infatti, si dividono grosso modo in due categorie. Quelli che hanno registrato una crescita nel job approval del presidente tra i 9 (Washington Post) e gli 11 (Cbs/New York Times) punti percentuali. E quelli che che non hanno visto differenze rilevanti sotto il profilo statistico: Gallup (+3%); CNN (+1%); Newsweek (nessuna variazione) e Rasmussen Reports (nessuna variazione). Secondo Survey USA, infine, per il quale non esistono termini di confronto recenti, l’indice di approvazione di Obama resta ben al di sotto della linea di galleggiamento del 50%. Anche volendo prendere in considerazione soltanto i sondaggi più favorevoli a Obama – che arrivano comunque da testate sempre molto “amorevoli” nei confronti del presidente – resta il fatto che una crescita di una decina di punti percentuali è davvero poca cosa, rispetto all’enormità mediatica del fatto in sé. Tanto per avere qualche metro di paragone, Bush Sr. nel febbraio del 1991 dopo la fine di Desert Storm passò dal 56% all’89% di job approval (a dicembre era già tornato al 50%), mentre Bush Jr. dopo l’11 settembre balzò dal 51% all’86%.
“Rimbalzino” al di sotto delle attese e problemi di comunicazione a parte, non c’è però alcun dubbio che il Team Obama proverà nei prossimi mesi a massimizzare l’effetto positivo dell’uccisione di Bin Laden in vista della prossima corsa verso la Casa Bianca. E i cervelli necessari per elaborare una strategia efficace non mancano di certo. Obama condurrà una campagna “bicefala” con due principali sedi operative: Washington e Chicago. A condurre le danze nella beltway sarà Bill Daley, figlio e fratello di due storici (e molto discussi) sindaci della Windy City, uomo di raccordo tra la base obamiana e i grandi finanziatori del partito democratico. Più figura alla Jim Baker che “architetto” alla Karl Rove, Daley è l’unico uomo di Obama che riesce ad andare d’accordo sia con Howard Dean che con Rahm Emanuel (che di Chicago è il nuovo sindaco), senza disdegnare rapporti civili con le controparti repubblicane. A guardia del fortino di casa, invece, ci sarà Jim Messina, che si è recentemente dimesso da capo dello staff alla Casa Bianca per diventare il direttore della campagna 2012. Anche David Axelrod, dopo i due anni trascorsi a Washington da senior adviser del presidente, è tornato a Chicago per preparare la battaglia. E come nel 2008 il ruolo di “The Ax” sarà decisivo.
Poi, in rigoroso ordine alfabetico, ci sono tutti gli altri. Cornell Belcher, già elemento punta del Democratic National Committee, coordina lo sforzo di mobilitazione per i giovani e la comunità afro-americana. Joel Benenson, sondaggista dal sangue di ghiaccio e dallo sguardo lungo, è l’uomo dei numeri. Jennifer O’Malley Dillon è una delle poche novità rispetto al 2008 (lavorava per John Edwards) ma è considerata una forza della natura nella gestione degli attivisti. Larry Grisolano, nell’ombra, gestisce il budget per gli spot radiofonici e televisivi, le pubblicità su internet e le operazioni di direct-mailing. Valerie Jarrett continua ad esercitare la sua influenza diretta su Obama, come membro privilegiato del mitico“inner circle”. Dan Pfeiffer è il direttore della comunicazione. David Plouffe, forse la star più luminosa del Team O. nel 2008, è scomparso per un paio d’anni, ma adesso è tornato ad essere uno dei consiglieri principali di Obama. Julianna Smoot, infine, dovrà realizzare l’obiettivo dichiarato di raccogliere un miliardo di dollari in fundraising per la campagna elettorale, gran parte dei quali (con buona pace di chi crede alle favole) dovrà essere “estorta” ai miliardari del “grande capitale”.
La strategia di Obama, come nel 2008, non si concentrerà soltanto sugli stati in bilico, ma attraverserà tutti gli Usa – Sud repubblicano compreso – in uno sforzo con pochi precedenti nella storia elettorale americana. La materia grigia per compiere l’impresa c’è, il denaro sufficiente probabilmente ci sarà, il candidato (soprattutto adesso) ha riacquistato apparente forza e solidità. L’errore da evitare ad ogni costo, però, è quello di trascinare fino al 2012 il coro stonato che ha stordito l’opinione pubblica negli ultimi giorni. Senza una comunicazione compatta, univoca e coordinata, le elezioni è più facile perderle che vincerle. Anche con lo scalpo di Bin Laden nel cassetto.
(oggi in edicola su Il Tempo)