Una questione culturale
Ne è stata fatta una questione politica, ma più che altro è culturale. I guai sono cominciati da quando, nel dopoguerra che apriva le porte al benessere, lo Stato si è avvalso del diritto di dire ai genitori di non preoccuparsi, che i figli glieli avrebbe allevati lui. Li ha coccolati, mentre i babbi e le mamme li hanno protetti e giustificati, assegnando loro un compito ben preciso: ottenere tutto ciò che chiedevano – o meglio pretendevano, con la pretesa di riscattare le difficoltà e le rinunce del passato. La prospettiva lo consentiva, allora. Adesso non più. Probabilmente, per la prima volta negli ultimi cinquant’anni, ci sarà una generazione più povera di quella che l’ha preceduta e il malessere ha cominciato a diffondersi rapidamente. E quando inizia il contagio di massa di un virus, si scatenano le reazioni più violente.
Come se poi fossero soltanto quelli scesi per le strade di Roma o delle altre capitali mondiali, gli indignati. Non è affatto vero: lo sanno i politici, lo sanno i media. Fingono di non accorgersene e gli va bene perché quest’altra categoria di indignati ha delle basi sulle quali fare affidamento e alle manifestazioni preferisce uno strumento di gran lunga più serio: il ragionamento. Trattengono l’istinto, arrestano la piena di sangue diretta al cervello, provano a capire perché le cose non funzionano come dovrebbero. Non sono massa, sono individui.
Fanno i conti con gli stessi problemi degli altri, tentando però di girarli a proprio favore. Non considerano la precarietà una pena capitale: d’altronde, non c’è mai nulla di definitivo, nemmeno la vita stessa. Sono convinti che con essa si possa convivere dal momento che non vogliono il posto fisso, vogliono semplicemente lavorare per mettersi in mostra, per dimostrare quanto valgono e scommettere su se stessi. Ammettono il rischio e vanno avanti.
Se gli altri protestano contro un sistema che li ha allevati ed educati finché la cantina era piena, pretendendo aiuti dallo stesso sistema che ora accusano, questi di indignati avanzano una sola richiesta: che il sistema-Stato si faccia da parte con il suo paternalismo esasperante e dedito alla regolamentazione della vita individuale perché loro, gli individui, possano schierarsi in campo e giocare la loro partita. L’arbitro si limiti a fischiare i falli, senza arrogarsi il diritto di indirizzare l’incontro.
A questo punto è quanto mai chiaro che la questione non è politica, ma culturale. E il primo ambiente dove i figli imparano a stare al mondo, è la famiglia: una realtà che con il tempo ha assunto contorni sbiaditi e confusi. Ma fosse anche una famiglia non tradizionale, poco importa: è per quella via che bisogna transitare. È come il babbo che porta il moccioso a pesca la prima volta: gli insegna come impugnare la canna, come preparare l’amo e a lanciare. Gli da indicazioni, gli dice di pazientare che prima poi un pesce abboccherà e lo aiuta infine a tirare la preda fuori dall’acqua. Poi i due si guardano negli occhi, rispettivamente soddisfatti ed orgogliosi, e il padre passa dalla teoria alla pratica: “Ora fallo da solo”. Nella speranza che lo Stato non si apposti sull’altra riva del fiume e faccia scappare tutti i pesci, facendo rumore.