Lo ricordiamo così
Un gigante circondato da nani. Anzi: un gigante che si è circondato di nani. Silvio Berlusconi è stato un concentrato pressoché unico di miseria e nobiltà, di vette inesplorate e di abissi umani e politici. Sceso in campo nel 1993, dopo la prima giornata passata a Montecitorio se ne è uscito con un “mai lavorato così poco in vita mia”. Genio totale. Sregolatezza anche. A chi gli rinfacciava scarsa esperienza politica ribatteva “Che cosa avete fatto nella vita? Io posso citare case, giornali, televisioni, insomma il secondo gruppo italiano”.
Quintessenza del politicamente scorretto è morto, ahinoi, democristiano pure lui. Impantanato tra i Fini e i Casini, i Pisanu e gli Antonione. Gente che – come per un Lee Oswald qualsiasi – può diventare famosa solo se artefice di un regicidio. Se non ci fosse stato Berlusconi e le loro prese di distanza dall’uomo a cui devono tutto, nessuno saprebbe nemmeno di chi stiamo parlando. Berlusconi per diciassette anni è stato così: ha fatto grande gente che non se lo meritava, si è dimenticato completamente di quelli che, invece, andavano ascoltati di più e meglio.
Eppure, nonostante mille difetti, si è preso sulle spalle un blocco moderato che nessuno aveva mai unito prima, ha sfidato poteri forti e stampa nemica, ha costruito un partito in sei mesi, poi l’ha sciolto, ne ha fatto un altro dal predellino di un auto e poco a poco, oggi, lo sta dilaniando. Il bipolarismo italiano è Silvio Berlusconi: contro o a favore.
La piazza ricolma d’odio di ieri sera dimostra che non siamo un paese normale, che le regole democratiche e di rappresentanza ci paiono sempre e comunque uno strumento buono per sostenere la tesi di turno. Che c’è da festeggiare quando un Parlamento di nominati caccia un governo eletto per metterne uno senza un solo voto popolare? Niente. E dovrebbero capirlo per primi quelli che portano l’aggettivo “democratico” nel nome del partito.
In questo “cul de sac” Berlusconi ci è finito grazie alla stessa tenacia con cui mille volte era riuscito a sparigliare tutto. Però al contrario. Con una protervia tutta sua ha imposto nani e ballerine, anestetizzando ogni possibile istanza di cambiamento all’interno di un partito e di un movimento creato a sua immagine e somiglianza e a sua immagine e somiglianza destinato a finire. Peccato, peccato davvero. Perché rispetto a Monti, a Pisanu, a Letta, ai tanti bocconiani che rifaranno l’Italia, questo signorotto brianzolo era capace di suscitare sentimenti, passioni, contrasti. Non De Gasperi, certamente no. Ma nemmeno Giuliano Amato.
A modo suo ha segnato un’epoca, governando poco più della metà di questi 17 anni che saranno ricordati come i suoi anni, quelli del berlusconismo. Gli altri sono stati comparse: nella migliore delle ipotesi conigli bianchi su sfondi bianchi, nella peggiore agitatori di folla con un solo obbiettivo, quello di cacciare il Cavaliere più amato e più odiato della politica italiana.
Vorremmo non parlarne più e vorremo dire anche che mai potremmo rinnegare quel che è stato. Gli errori degli ultimi anni non cancellano la grandezza di un uomo che è comunque riuscito ad evitare che questo paese fosse guidato da un Occhetto qualsiasi. Già questo vale una carriera. Aggiungeteci lo show di Vicenza a Confindustria e capirete perché, in fondo, abbiamo sempre sperato che tornasse sé stesso. Non è successo, ma non è un buon motivo per dimenticare che è stato meglio, molto meglio di tanti altri. Anche per il solo fatto di aver lavorato, da solo, più di quanto abbiano fatto messi insieme Bersani, Casini, Fini, Rutelli e Bossi.