Contro gli asili nido
Quando, ormai due anni fa, “Contro gli asili nido”ha visto la luce , il discorso pubblico sulla conciliazione tra famiglia e lavoro in Italia era monopolizzato da una sola, pressante richiesta: più nidi per tutti. Aumentare il numero di nidi pubblici, allargare i cordoni della spesa pubblica per sovvenzionarli, diffonderli su tutto il territorio nazionale, estenderne l’orario di apertura, renderli “universali” (il copyright è di Veltroni, ma l’espressione non avrebbe sfigurato su tante altre bocche) sembrava a tutti la soluzione a ogni male derivante dal conflitto tra famiglia e lavoro: fino ad essere invocato come l’antidoto alla denatalità, ormai in crescita libera nel nostro paese. Di più: la frequentazione dei nidi veniva spacciata non solo come cosa buona e giusta per riportare di corsa le madri lavoratrici in ufficio, ma anche per consentire ai bambini di “socializzare”, e persino per migliorare le loro future performance scolastiche. E giusto per condire l’argomentazione con quella dose di esterofilia che non guasta mai, si portavano ad esempio gli altri paesi europei, tutti più vicini al famigerato obiettivo di Lisbona (copertura del 33% sulla domanda di nidi) del nostro (oltre che più vicini ai vincoli di stabilità, in primis quello del debito pubblico, peraltro).
Due anni fa, l’imperativo era: delega educativa. L’idea che l’affidamento ai nidi, o alle baby sitter, o a qualsiasi surrogato delle madri potesse non essere la panacea era del tutto bandita dal dibattito. Qualsiasi argomentazione facesse leva non solo sul benessere dei neonati (perché di neonati si tratta, e non di bambini in età scolare), ma anche sul desiderio dei genitori di non consegnarli in fasce a terzi per la maggior parte della giornata, veniva bollata in anticipo come retrograda. Le obiezioni di sedicenti femministe si levavano come alti lai davanti alla prospettiva che qualcuno potesse strappare le madri lavoratrici alla schiavitù del cartellino, per chiedere almeno il loro parere sulla scelta obbligata che erano costrette a fare. Nessuno si azzardava ad allargare lo sguardo fuori dai nostri confini – ad esempio, in quella Germania dove, avendo sperimentato i nidi ad apertura estesa e “universali” della DDR, esiste tuttora un fiorente dibattito sulle deleterie conseguenze dell’affidamento precoce e prolungato ai nidi. A pochissimi veniva in mente di precisare che, se i paesi “modello” erano più vicini all’obiettivo di una felice conciliazione tra famiglia e lavoro, questo fosse non solo grazie ad un buon numero di nidi pubblici o di “tagesmutter”, ma anche grazie alla diffusione di misure come il part-time, il telelavoro, gli orari flessibili. E ancora meno erano quelli che invocavano la flessibilità lavorativa e le soluzioni tecnologiche ormai pressoché universalmente diffuse, come possibile alternativa.
A distanza di due anni, poco è cambiato. Il pensiero dominante, che spaccia la rigidità statalista e emancipazionista per l’unica possibile strada, impera ancora abbastanza indisturbato. Ecco perché mia sorella (nonostante i suoi figli siano ormai già cresciuti) da due anni non fa che ripetere che conciliare tra famiglia e lavoro non può voler dire accantonare la prima per far posto al secondo. Ecco perché si è gettata a tuffo in una serie di iniziative per sostenere la flessibilità lavorativa come strada maestra per la conciliazione, e condizione essenziale per permettere a chi vuole occuparsi in prima persona dei figli di poterlo fare. Ed ecco perché la pubblicazione del suo pamphlet in versione ebook è una buona occasione per ribadire che le alternative esistono: basta volerle promuovere. Alternative percorribili, anche in tempi di crisi, e sostenibili rispetto alla prospettiva di trasformare lo Stato (a spese del contribuente) in una balia, che mentre il collettivo dei suoi sudditi lavorano ancora alla maniera di Fantozzi, sveglia e caffè, barba e bidé, si prende cura del collettivo dei loro pargoli, avocando a sé la responsabilità educativa. E se non vogliamo ritrovarci tra qualche anno di fronte ad adolescenti sconosciuti, a lamentarci per l’emergenza educativa – magari con quello stesso Stato cui abbiamo chiesto di allevarli -, sarà meglio riprenderci insieme la responsabilità e la libertà della loro educazione, fin dalla prima infanzia.
CONTRO GLI ASILI NIDO
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