Donne di centrodestra
Se è in generale vero che il centrodestra italiano si avvia convintamente alle prossime elezioni – prima amministrative, poi politiche – in ordine sparso, incapace di riprendersi dai rovesci subiti negli ultimi anni (per chiamarli con il loro nome senza troppe sottigliezze), questo è vero più in particolare per la sua componente femminile. Oso dirlo: le donne dell’area moderata e conservatrice, che siano elettrici, simpatizzanti, o elette, con rarissime eccezioni, sono messe male. Ma non per le ragioni che immagina chi per mesi le ha di volta in volta insultate, ridicolizzate, accomunate all’umanità della peggiore risma – gente che immaginava che il leader della coalizione le avesse raccolte tutte sotto i lampioni per strada, assoldate e protette come neppure un magnaccia professionista, e che ora, giudicandolo caduto in disgrazia, ritiene sia ormai venuta meno la ragion d’essere della loro opzione politica. Gente che immagina che tutte le pidielline facciano ordinatamente ritorno come Maddalene penitenti al loro ovile naturale, dove c’è chi sa prendersi cura di loro: a sinistra.
In parte, il problema sta anche nell’aver alimentato questa speranza. Per tutto questo tempo, nel quale essere donna e votare per il centrodestra è sembrato un ossimoro, l’area moderata non è stata capace di esprimere un pensiero di senso compiuto sulle donne – o almeno di dichiarare esplicitamente che non intendeva esprimerlo, ciò che sarebbe equivalso già a un’opzione politica precisa. Non c’è stata un’idea di donna, un’idea solida e articolata, a sostenere le scelte del centrodestra: nessuno l’ha elaborata, nessuno l’ha dettagliata, nessuno ne ha mai neppure avvertito e denunciato la necessità. Al contrario, appena possibile ci si è accodati a vecchi adagi, conseguenti da una concezione non soltanto della donna, ma più in generale della società, che storicamente non ci appartiene. Il risultato è stato quello di appoggiare certe malnate battaglie in nome di una non meglio precisata solidarietà trasversale di genere, senza riflettere sulle loro implicazioni – che, condotte alle loro logiche conseguenze, avrebbero sconfessato la nostra stessa appartenenza politica. Ci mancava solo che partecipassimo ai cortei in difesa del corpo della donna (e per un attimo è sembrato persino che dovessimo farlo, pena l’espulsione dal genere femminile).
Ma tutto questo, ripeto, è figlio di un’idea di donna che abbiamo acriticamente abbracciato senza vagliarla. Abbiamo seguito una traccia allettante, senza preoccuparci di dove potesse condurci; abbiamo scorto un filo cui attaccarci senza pensare a quale sagoma disegnasse. E soprattutto, senza capire che per fare politica occorre anzitutto pensare la politica: e questo è vero anche per la politica di genere, che come ogni altra mutua il proprio senso da un progetto di società, di civilità, di vita, e non da una semplice operazione propagandistica. Qual è il progetto di società, civiltà, vita, che sta dietro la concezione oggi prevalente? Cosa implica la negazione della insopprimibile differenza tra i generi femminile e maschile? Che senso ha l’ondata di puritanesimo di ritorno, soprattutto in rapporto alla concomitante e persistente rivendicazione della più piena libertà di costumi che tracima da ogni insulsa rivista patinata? Quali sono i valori promossi da chi legittima l’incondizionato egoismo dell'”io sono mia”, spacciando atti di puro autolesionismo – questi sì, diretti verso il corpo femminile – come la più piena realizzazione di questo adagio? Cosa significa per il nostro futuro incoraggiare la delega educativa, pur di salvaguardare la compattezza di un esercito di volenterose impiegate? Nessuna risposta. Peggio ancora, neppure la domanda.
Lo so, lo so: sarebbe stato sommamente impopolare arrischiarsi a mettere in discussione gli assunti cardine della religione delle pari opportunità, che nella loro essenza altro non sono che cascami dell’emancipazionismo sessantottino – non del femminismo in generale, attenzione, ma di quella corrente più visibile, chiassosa e fortunata che è riuscita a spuntarla sulle mille altre del movimento delle donne, arrivando fino ai giorni nostri. E d’altro canto, chi lo avesse anche solo ipotizzato sarebbe stato istantaneamente tacciato di intenzioni vessatorie, di nostalgie patriarcali, o addirittura di voler riproporre modelli risalenti al Ventennio (confessate, o miei venticinque lettori: anche voi sospettate, almeno finora, che io voglia andare a parare esattamente lì). Ecco qual è il vero problema: non essere riusciti ad elaborare un’alternativa vera rispetto alla sottomessa, ignorante e segregata madre di innumerevoli figli da donare alla Nazione (ancora viva e attiva solo in certe allucinazioni di Langone). Con il risultato che, per sfuggire da questa scomoda e sbiadita immagine, ci si è buttati con tutte le scarpe in braccio alle michelemarzane e alle concitedegregorie, subendo le loro intollerabili lezioncine, unendosi ai loro coretti di sedicente indignazione, senza riuscire a rialzare la testa per opporre a questi sterili simulacri il proprio, diverso, punto di vista.
Non so come il centrodestra uscirà dallo stallo attuale, né se ne uscirà entro le prossime scadenze elettorali. Quello che so, di cui sono certa, è che non accadrà, se non riprogetta il suo percorso alla luce di idee in grado di resistere agli urti vani delle circostanze, per disegnare con tratto fermo un futuro possibile. Ciò che più dobbiamo temere è la mancanza di idee, madre di quelle pallide imitazioni recuperate a sinistra e a manca che spesso e volentieri abbiamo visto campeggiare nei programmi elettorali. E se tra queste stanche riproduzioni continuerà a campeggiare un’immagine di donna mutuata da una prospettiva così lontana dalla nostra, non potremo certo aspettarci che il Paese che verrà si avvicini tanto di più a quello che vorremmo.