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Numeri della Florida
A 48 ore dal voto delle primarie repubblicane in Florida, è il caso di sottolineare qualche dato di fatto passato sotto silenzio durante l’orgia mediatica sulla ritrovata “ineluttabilità” della vittoria di Mitt Romney.
1) La vittoria dell’ex governatore del Massachussetts è stata netta (+14%), ma assai meno stupefacente se osservata in una prospettiva storica. Negli ultimi quarant’anni, soltanto in un paio di casi (McCain nel 2008 e Ford nel 1976) il vincitore della primarie repubblicane in Florida ha fatto registrare un distacco inferiore al 25% nei confronti del secondo classificato. In qualche caso (Bush nel 2000, Nixon nel 1972), questo distacco ha addirittura superato il muro del 50%.
2) In un mercato televisivo estremamente costoso come quello della Florida, a fronte di un vantaggio del 14% in termini di voti, la campagna di Romney ha speso circa il 450% in più di quella di Gingrich nell’acquisto di spot. Sommando il denaro speso dalla campagna ufficiale di Romney a quello speso dal suo SuperPac “Restore the Future”, si arriva all’incredibile totale di oltre 15 milioni di dollari (15.340.000 per l’esattezza), contro i 3.390.000 dollari spesi da Gingrich (compreso il SuperPac “Winning the Future”). Dodici milioni di dollari per un distacco del 14%. E’ quasi un milione di dollari ogni punto percentuale. Il New York Times ha stimato che il 92% degli spot trasmessi in Florida sono stati “negativi”. Anche se l’impatto di questa “superiorità aerea” è difficile da valutare, altrettanto difficile è ignorare la differenza che esiste tra la trasmissione di 12.768 spot (Romney) contro 210 (Gingrich).
3) Dopo l’ottimo risultato del turnout in South Carolina, il trend sembra essersi nettamente invertito in Florida. E questo non può che suscitare preoccupazione in quell’establishment repubblicano che tanto si affanna nel far “ingoiare” la candidatura di Romney alla base conservatrice e al movimento dei Tea Party.
Si tratta di un trend ancora più pericoloso, poi, se si pensa che – contando solo gli elettori repubblicani in senso stretto (escludendo cioè “indipendenti” e “democratici” che possono votare nelle primarie aperte), i numeri sono ancora peggiori. E la differenza tra South Carolina (vinta da Gingrich) e Florida (vinta da Romney) diventa più netta. Calcolando il turnout dei soli repubblicani, infatti, soltanto nel Palmetto State il turnout è stato superiore rispetto al 2008. In tutti gli altri casi il trend è negativo.
Ma esiste una correlazione diretta tra turnout (e dunque grado di mobilitazione dell’elettorato) e candidati? Secondo Michael P. McDonald della George Mason University la rispostà è affermativa. In particolare, nota McDonald, in Florida le contee in cui il turnout è stato superiore rispetto al 2008 sono quasi tutte quelle in cui il risultato di Gingrich è stato superiore alla media. Mentre nelle contee vinte da Romney i repubblicani che sono andati a votare sono stati meno di quattro anni fa.
Detto in soldoni: quando la base repubblicana è motivata, Romney perde; quando la base repubblicana è svogliata, Romney vince. Tutto questo, non soltanto getta una luce sinistra sulla reale “ineluttabilità” della vittoria di Romney alle primarie. Ma soprattutto mette in forte dubbio le possibilità di successo dell’ex governatore in una sfida contro Obama a novembre. Un certo grado di appeal nei confronti di indipendenti e moderati è senz’altro necessario per arrivare alla Casa Bianca. Ma senza una base motivata, senza un get-out-to-vote radicato e capillare, le probabilità di cambiare l’inquilino di Pennsylvania Avenue sono praticamente vicine allo zero. Sarebbe il caso che l’establishment repubblicano si rendesse conto di questa semplice verità, prima che sia troppo tardi