Ha vinto lui

Dieci anni e sembra ieri. Dieci anni e ha vinto lui. Marco Biagi non c’è più ma le sue idee, la sua riflessione, le sue proposte, i suoi progetti, si sono imposti con la forza delle cose ben piantate nella concretezza dei tempi, con la intrinseca capacità delle innovazioni che rifuggono dall’ideologia e dai pregiudizi. Il suo pensiero è diventato largamente patrimonio condiviso e comune e il suo progetto più ambizioso, lo Statuto dei lavori, è, al di là delle formule, un’opera in via di compimento. L’ispirazione di fondo tesa a conciliare flessibilità e sicurezza, frutto della sua vastissima esperienza di comparatista e della sua cultura di europeista convinto,  è ormai parte essenziale di ogni iniziativa riformatrice in materia di lavoro. Tanto che verrebbe da dire in principio fu Biagi e dieci anni dopo è ancora Biagi a indicare la traccia. Ma questa volta a tutti.

Quello che, di lui, dieci anni fa si poteva leggere nei suoi articoli, nei suoi saggi, nei suoi papers, è oggi diffusamente norma di legge e pratica di contrattazione. E quello che, delle sue idee, non si è tradotto in nuova regola delle relazioni di lavoro, continua a vivere come inesorabile e irrinunciabile contributo a sostegno di coloro che sono impegnati nella difficile opera di modernizzazione del nostro mercato del lavoro.
Ci parlano e ci raccontano esattamente questo le cronache di questo decennio, intessute di progetti di riforma trasformati in legge e di spunti che ancora possono fornire risposte al rinnovato dibattito sul futuro delle relazioni industriali in Italia.

E’ profonda l’impronta di Biagi sulle riforme del lavoro di questi dieci anni. Ed è ricco il suo lascito, la sua vitale eredità di cambiamenti ipotizzati.  E, allo stesso modo, resta originale e gravida di buone pratiche anche quella che era la cifra del suo riformismo, quella ispirazione cattolica e socialista-umanitaria che metteva al centro non l’astratto e isolato individuo, non la classe, ma la persona,  la persona in carne e ossa e nelle sue proiezioni relazionali: la famiglia, l’impresa, il sindacato, la comunità. La stessa ispirazione che si ritrova nella fondamentale legge delega del 2003 che porta il suo nome. La stessa ispirazione che, non per caso, caratterizzerà l’attività riformatrice anche di chi ha seguito la sua traccia.
 
Riformismo votato al personalismo, ma anche studi comparati con una larga visione internazionale. E, soprattutto, tanto, intenso progettualismo. Come racconta chi ha collaborato con lui, Biagi, forte dei suoi sperimentati convincimenti, ha sempre lavorato “a progetto” e “per un progetto”: quello della modernizzazione di un mercato del lavoro asfittico, diseguale, chiuso, non trasparente e, per questo, non equo né tanto meno luogo e fattore di occupabilità delle persone.  A testimonianza della lungimiranza e della vitalità della sua capacità progettuale, da architetto delle riforme, basta scorrere i paragrafi di Progettare per modernizzare, così come lo studio su Competitività e risorse umane: modernizzare la regolazione dei rapporti di lavoro, che poi costituirà la base del Libro Bianco sul futuro del mercato del lavoro in Italia – Proposte per una società attiva e per un lavoro di qualità dell’ottobre 2001, a sua volta fondamento della Legge Biagi.

E’, dunque, l’ansia della modernizzazione del mercato del lavoro con la persona al centro (e i giovani e le donne più al centro di tutti) e la tensione verso i risultati (in termini di maggiori tassi di partecipazione e di occupazione) a tenere insieme le innovazioni che portano la sua mano e che via via hanno trovato punti di riferimento legislativi nel corso del decennio, a cominciare dagli istituti regolati dal decreto legislativo del settembre 2003, a valle della Legge Biagi, tutti rivolti a includere e a far emergere forme e spezzoni lavorativi sommersi o irregolari.

Nella stessa prospettiva e direzione si collocano gli sviluppi normativi e gli accordi con le parti sociali realizzati negli anni più recenti sul tema cruciale della integrazione tra sistema educativo e mercato del lavoro attraverso il riassetto dell’istruzione tecnico-professionale, della formazione, del placement universitario, dell’alta formazione come leva di innovazione e non solo come percorso accademico, e attraverso la riforma del contratto di apprendistato, sopratutto di primo e terzo livello, come canale privilegiato di ingresso dei giovani nel mercato.  Così come dalle sue elaborazioni di un decennio fa vengono le nuove regole sulla conciliazione e l’arbitrato come forme di superamento e sfoltimento del contenzioso lavoristico che rappresenta esso stesso un ostacolo per nuove assunzioni. E a lui va ricondotto anche quel Codice della Partecipazione che ha visto la luce poco più di un anno fa come primo, sostanziale contributo alla diffusione di buone pratiche in materia di partecipazione dei lavoratori ai risultati dell’impresa.

Ma, a volgere lo sguardo sempre agli ultimi anni, le due innovazioni più radicali e dense di significato, nelle quali si rinviene la peculiare eredità di Biagi, in termini di tecnica regolatoria e, soprattutto, di impostazione politico-culturale,  sono la detassazione dei salari di produttività e l’articolo 8 della manovra della scorsa estate relativo alla efficacia dei contratti aziendali e alla loro capacità derogatoria rispetto ai contratti nazionali e alle stesse leggi. Vi è, in entrambi i casi, la valorizzazione non solo della contrattazione collettiva (e, dunque, del sindacato), in un’ottica decentrata e sussidiaria, rispetto alla norma inderogabile di legge, ma della contrattazione di prossimità, quella più vicina alla persona e al luogo di produzione della ricchezza. Valori e pratiche che, a ben vedere, altro non sono se non il nucleo costituente di quello Statuto dei lavori che rimane il suo più significativo progetto, quel progetto che non a caso era contenuto in un file chiamato “Marina”, dal nome della moglie.

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