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La lezione leghista
Non è un bello spettacolo, quello messo in scena dalla Lega. Non è bello quel che emerge dalle indagini di quattro procure e che i giornali continuano a anticipare. Non è bella l’epurazione dal sapore stalinista di chi è finito nel tritacarne mediatico, senza peraltro neppure essere indagato. Non è bella neanche l’aria di soddisfazione, nemmeno troppo nascosta, di ex alleati e antichi avversari.
Ma in questo scenario desolante, in troppi sottovalutano un particolare rilevante. E cioè che i leghisti (compreso il Trota) stanno dando una lezione di politica a molti colleghi degli altri partiti. Lo scatto di reni della Lega è stato impressionante. La capacità del Carroccio e del suo gruppo dirigente di reagire con prontezza, rapidità e decisione è senza pari, almeno in Italia. Non hanno aspettato di farsi triturare più dello stretto necessario. Nessuno dei grandi partiti, colpiti più volte da scandali di ogni genere, ha mai dimostrato di avere la forza di sterzare in corsa senza perdere nemmeno una settimana. Di solito, in Italia, la classe dirigente che viene colpita con violenza alla vigilia di un’importante consultazione elettorale rimane tramortita per un po’. E, mentre annaspa sotto i colpi del circo mediatico-giudiziario, gli elettori assistono ad una resa dei conti tra cordate interne. Combattuta più sulle pagine dei giornali che nei congressi politici.
I leghisti no. Alla velocità della luce hanno fatto quadrato per minimizzare i danni. Nel giro di poche ore si è dimesso il segretario-fondatore, l’indiscusso leader carismatico. E ha lasciato la poltrona una delle persone che erano finite sotto l’occhio dei media, più ancora che della magistratura. Renzo Bossi si è dimesso da consigliere regionale, non dal partito. E cioè dall’incarico che gli garantiva lo stipendio e non dalla militanza politica. Lusi e Penati (tanto per fare due esempi, uno della Margherita e uno dei Ds) hanno fatto esattamente il contrario: hanno lasciato il partito ma non l’incarico da cui deriva la loro entrata pecuniaria.
Certo, Roberto Maroni e la sua corrente hanno approfittato dell’occasione per accelerare il ricambio di leadership.
Ben consapevoli che senza il video di Renzo Bossi che prende i soldi dall’autista (e bancomat), insieme alle storie sulla compravendita di diplomi della Nera, il cambio della guardia alla guida del Carroccio – per quanto inevitabile – avrebbe richiesto tempi più lunghi e, soprattutto, incerti.
Ma nessuno può negare che la rapidità con la quale Bossi padre ha rimesso il mandato e obbligato Bossi figlio alle dimissioni, ha del portentoso nel nostro Paese. Senza contare la velocità con la quale è stata decisa la convocazione di un congresso per la scelta della futura linea e della nuova classe dirigente. Non si è trattato di un riflesso condizionato (l’ultimo congresso leghista si è celebrato ormai dieci anni fa), ma di una vera e propria scelta strategica consapevole.
Bossi sapeva di dover passare la mano. Maroni sapeva che senza la benedizione del Senatùr la sua sarebbe una leadership dimezzata. Entrambi sapevano che più dura il massacro mediatico-giudiziario, peggio è per i prossimi risultati elettorali. E hanno scelto, ancora una volta, di giocare le loro carte sul piano simbolico della pulizia e della ripartenza per riconquistare la base.
Con una lucidità che molti altri leader italiani dovrebbero invidiare.