Diario Americano/1

Dallas, Texas.
Fino a pochi giorni fa non avevo dato molto credito a chi mi aveva detto in passato che la politica e’ una malattia mentale senza alcuna possibilita’ di cura. Bunch of baloney, dicevo io. Poi, senza sapere bene come o perche’, ti ritrovi seduto nell’ufficio d’angolo di una campagna elettorale per il Congresso del Texas a sorvegliare il quartier generale all’ora di pranzo. Sei dall’altra parte del mondo e ti chiedi, sinceramente, chi te l’abbia fatto fare di usare le tue vacanze per venire qui a fare politica.

Insomma, va bene la passione, va bene tutto, ma spendere fior di quattrini per volo, motel, subire un salasso stile medievale per noleggiare una macchina, litigare con smartphone e tablet per evitare di perderti ogni cinque minuti, tutto per venire qui e testimoniare che in Europa non ci sono solo utili idioti, anime belle al servizio dello statalismo piu’ bieco mi sembra un caso di demenza quasi patologica.
Si dice che gli unici a cambiare il mondo siano sempre persone che riescono a superare i luoghi comuni e il pensiero unico. Possibile, magari anche probabile. Ogni tanto, pero’, ti viene da pensare che andarsene al mare in Turchia per due settimane sarebbe costato molto, molto meno e ti senti un povero pirla.

L’operazione “Italy for USA”, reminescente dello splendido pezzo degli Squallor, e’ nata per caso, da una email inviata dal sottoscritto alle quattro di notte dopo l’ennesima giornata massacrante passata in ufficio. “Che ne direste se venissi due settimane giu’ in Texas per darvi una mano?”. Esitazione prima di inviare. Poi pensi “figurati che se ne fanno di un giornalista italiano, anche se ex portavoce del Tea Party Italia. Il bel gesto l’ho fatto comunque.” Premi invio, sicuro che le risposte saranno cortesi ma negative.
Grossolano errore di valutazione. Gli americani adorano queste cose. La cultura del volontariato politico, specialmente grassroots, e’ una vera e propria religione. Nessuno pensa sia folle farsi diecimila chilometri, pagandosi tutte le spese (non oso tenere i conti per evitare colpi apoplettici) per giocare un ruolo necessariamente minore in campagne elettorali super-organizzate e meglio finanziate. “Certo, vieni, saremo felicissimi di averti qui.” Cavolo, ora come faccio a tirarmi indietro? Non si puo’, tocca prenotare il biglietto e lasciare che siano loro ad organizzare il resto.

Il giorno della partenza arriva, preceduto ovviamente da un devastante turno in redazione quasi notturno causa posticipo di Serie A. Torni a casa all’una e mezza: alle cinque bisogna partire per l’aeroporto. Inutile anche provare a dormire. Ad Heathrow, un sospettosissimo addetto ti riempie di domande strane. Vista la stanchezza provi ad alleggerire la tensione. Grosso errore. L’umorismo non funziona con i burocrati, li rende ancora piu’ sospettosi. Morale della favola: controllo su controllo prima della partenza. Meno male che ero arrivato in anticipo.

Alla fine sali sull’aereo e cerchi disperatamente di dormire. Riesci solo a passare otto scomodissime ore di dormiveglia, interrotte dall’insipido cibo da linea aerea, roba da far sembrare gustoso anche la roba servita dalla mensa universitaria. Washington, tre e passa ore di stop passate miracolosamente grazie a due generi di conforto fondamentali: la cosiddetta “smoking lounge” ed il wi-fi gratuito. D’accordo, la “lounge” e’ una specie di gabbia di vetro talmente piena di particolato e polveri sottili da assomigliare ad una camera a gas, ma per il tabagista e’ sempre una visione tipo oasi nel deserto. Sul wi-fi, invece, niente da dire. Qualcuno avra’ pensato che il miglior modo per tener buoni i passeggeri e’ permettergli di continuare a sproloquiare nell’universo parallelo dei social media. Eccellente idea, le tre ore sono passate in un battibaleno.
Caos all’imbarco del volo regionale per Dallas/Fort Worth, alla fine si riesce a salire senza imbarcare il bagaglio a mano. Dicono che i compartimenti per i bagagli sono piccoli e provano a farti imbarcare tutto. Ti tieni stretta la borsa con i generi di conforto elettronici fondamentali. Guai a chi li tocca. L’aereo sembra un giocattolo, un jet regionale da 90 posti Canadair piuttosto stagionato. Trattieni la risata pensando ai grossi bimotori gialli che spengono gli incendi. L’aeroplanino e’ proprio piccolo, ma funziona relativamente bene. Crolla il mito sui voli interni statunitensi, molto meno sbelluccerosi di quanto ti eri immaginato. Poco male, l’importante e’ finire l’odissea ed arrivare.
Tre ore e mezza di volo col rumore dei motori, dietro di te, nelle orecchie, che sara’ mai, un paio di puntate di Doctor Who che non avevi visto causa lavoro e siamo a posto, no? Piu’ o meno. Meno male che il sedile accanto e’ vuoto, cosi’ da permetterti di stiracchiarti.

L’ordalia finalmente finisce ed atterri. Appena fai un passo fuori dalla carlinga, botta inaudita di calore ed umidita’. 36 gradi centigradi. A Londra, alla partenza, erano solo 7. E vai, che stavo solo guarendo dalla bronchite estiva britannica. Arrivi nell’area del baggage claim e ti trovi davanti l’amico Scott, coordinatore del Tea Party di Mesquite, una vera e propria macchina da grassroots, la cui vita si divide tra la sua impresa di pulizia e manutenzione piscine e la politica. Dopo una mezz’oretta passata ad aspettare la valigia (un altro mito, l’efficienza texana, viene intaccato) si puo’ finalmente partire. Scott mi spiega che il mio programma non e’ ancora definito, ma che sicuramente per i primi tre giorni rimarro’ a Dallas, per poi partecipare ad una riunione importante del Tea Party locale con rappresentanti politici ed altre personalita’. Benissimo, ora pero’ andiamo al motel perche’ sono circa 40 ore che sono sveglio.

Il motel e’ particolare, una specie di albergo per “lunghe permanenze”, stanze con cucinotto, mini-studio apartments fatti per chi lavora fuori sede e torna a casa nel fine settimana. A Francoforte ho vissuto qualche settimana in un posto simile, quindi non e’ un’esperienza del tutto nuova. La sensazione, pero’ e’ strana. Non sei mai stato in un posto simile, ma ti sembra di averlo visto migliaia di volte. Non e’ solo una sensazione, posti come quello li hai visti migliaia di volte alla televisione. Camere che danno sull’esterno, ballatoio, parcheggio di fronte alla camera, colori pastello, in questo caso bianco e verde, parti comuni che avrebbero bisogno di qualche ristrutturazione, camere molto piu’ ordinate. Per i primi tre giorni sei a posto. Cena rapida ad un TGI Friday con primo hamburgerone maxi e poi crolli a letto.

Il giorno dopo perdi buona parte della mattinata perche’ il telefono della camera non funziona e ti guardi intorno. Zona periferica, niente di particolare, tanti ristoranti, negozi sparsi a destra e manca. Provi a cercare un bancomat per ritirare qualche dollaro e ti rendi conto di cosa volessero dire quando ti dicevano che “in America sei morto senza una macchina”. La banca piu’ vicina e’ ad un miglio buono, supermercati non se ne vedono neanche per sbaglio. Venendo da Londra, la citta’ dei cinquantamila off license, praticamente uno ogni cento metri, la cosa ti colpisce non poco. Grazie al wi-fi gratuito in camera (quanto ci vorra’ in Europa per capire che al giorno d’oggi Internet e’ una necessita’ fondamentale per l’essere umano under 60??) ti riesci ad orientare ed inizi a pensare alla macchina da noleggiare. Orientativamente ti verra’ a costare qualcosa tipo 400/450 dollari per due settimane. Non male, pensi. Poi arrivi al noleggio e ti rendi conto che, si’, il prezzo del noleggio e’ quello, ma che senza assicurazione base praticamente non te la danno. Alla fine, pensi, crepi l’avarizia. Costo dell’operazione: 780 dollari. Per poco non stramazzi sul posto, ma resisti, col volto bloccato da una paresi nervosa. Volevi un macchinone coreografico, tanto per farti qualche foto fica. Niente da fare, una normalissima Ford Focus. Momento di tristezza, poi finalmente prendi le chiavi. Il piede sinistro corre immediatamente sulla frizione e colpisce il fondo. Manca qualcosa. Giusto, automatico. Il piede sinistro, che non ne vuole sapere di restar li’ senza far niente, vola sul freno ed iniziano le comiche. Pensi di aver fatto un errore clamoroso quando la macchina inchioda ogni qual volta tocchi il freno, ti inizi a sentire un pezzo di idiota monumentale, poi provi a far tutto col piede destro e le cose migliorano assai. Nel giro di qualche miglio ti sei gia’ abituato, anche se, ogni tanto, l’istinto ti dice di tenere la sinistra, come in Inghilterra. Solo un attimo, ma abbastanza per farti gelare il sangue nelle vene.

Prendi una SIM locale, con tanto di pacchetto dati e ti inizi a sentire meglio, anche perche’ nella Focus il navigatore satellitare non e’ incluso. Panico. Come cavolo faro’ ad orientarmi? Provi a scaricare le mappe di Google Maps sul tablet, per poi usarlo come navigatorone. I problemi spuntano subito: troppo grande per entrare dovunque e poi, nonostante tu abbia scaricato le mappe, Navigator pretende una connessione dati attiva. I vaffa si sprecano. Alla fine ti riduci ad usare l’androidphonino d’annata per navigare. Provi a sistemarlo sul cruscotto, tra contachilometri e contagiri. Ci sta, ma cade ad ogni curva allegra. Fantastico, avanti cosi’. Alla fine riesci a trovare un modus vivendi, tutto molto precario, tutto molto arrangiato. Urge una visita a Radio Shack per trovare un supporto adeguato.

La politica, chiederanno i miei fedelissimi quattro lettori? La politica c’e’ ed e’ pure parecchio interessante, ma ne parlero’ nella prossima puntata di questo diario sconclusionato e molto in presa diretta. Ora aspetto che qualcuno mi dia il cambio nel quartier generale prima di prepararmi per le riunioni di stasera, che dovrebbero chiarire il programma di questa assurda, demenziale avventura oltreoceano. Stay tuned, folks, che il divertimento e’ appena iniziato.
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