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Retaggi di impero
Il più imperialista degli sport, probabilmente. Perché se i britannici lo hanno inventato (già a partire dal 1300), sviluppato ed esportato anche nei più remoti confini tra le terre sulle quali vegliava la corona del sovrano, con il passare del tempo il cricket è divenuta la disciplina dove indiani, pachistani e cingalesi danno prova tangibile delle loro abilità. Il cricket, che a spiegarne le regole ci si impiegherebbe un giorno e alla fine della lezione non sarebbero ancora chiare abbastanza per impugnare una mazza, posizionarsi in mezzo al campo e colpire la pallina. E’ un continuo confronto diplomatico, scandito da tempi lunghi e da scandali a corte. L’ultimo, scoppiato settimana scorsa, coinvolge sei arbitri del Bangladesh, accusati di corruzione e sospesi dall’International Cricket Council: a mettere in giro la voce per cui i sei giudici avrebbero combinato delle partite è stata India TV. E se New Delhi e Islamabad per mantenersi in forma di tanto in tanto si affrontano a muso duro, accudendo missili e testate nucleari, su un ovale di cricket si divertono ancora di più: nelle comunità pachistane e indiane in Italia c’è la corsa ad accaparrarsi un’antenna parabolica per seguire gli incontri.
Usi, costumi e tradizioni. Inghilterra e Australia per esempio si disputano The Ashes, una piccolissima urna che contiene appunto delle ceneri, dal 1882. La serie di Test Match ha preso questo nome dopo che quell’anno la formazione australiana aveva sconfitto gli inglesi al The Oval di Londra e sul quotidiano The Sporting Times venne pubblicato l’annuncio funebre della morte del cricket d’Oltremanica. Con tutta la spocchia del caso (bloody stuck up) non era certo ammissibile per lor signori perdere contro una colonia di malfattori. “The body will be cremated and the ashes taken to Australia”: così nacquero le ceneri. L’urna tornerà contesa l’anno prossimo, intanto si contano 123 partite vinte dall’Australia, 100 dall’Inghilterra.
L’impero non c’è più, al massimo ecco il Commonwealth, ma è tutt’altro paio di maniche. A Londra negli ultimi anni per competere con i vertici del ranking mondiale hanno arruolato alcuni atleti naturalizzati, di chiara origine boera. Operazione consolidata anche nel rugby: d’altronde i tempi lo richiedono. Gli scazzi proseguono. Nulla a che vedere con le guerre anglo-boere – che in Afrikaans sono conosciute comeVryheidsoorloë, guerre per la libertà e la cosa fa una gran bella differenza a pensarci bene e nemmeno troppo – ché ormai le vicende girano compresse in 140 caratteri e allora largo a infiltrati, spie e account fasulli. Kevin Pietersen ha 32 anni, è nato nel Natal, ma ha collezionato 626 cap con l’Inghilterra. Si è trasferito in India (toh) e si discute se indosserà di nuovo o meno la maglia della nazionale: non se n’è andato nel migliore dei modi. C’è infatti che ha creato un account falso a suo nome su Twitter lo scorso agosto: Pietersen si disse convinto che dietro a quei messaggi imbarazzanti ci fosse un compagno di squadra, alla fine ha ammesso le proprie colpe tale Richard Bailey, amico di due giocatori inglesi. In compenso Kevin contattava i sudafricani nel bel mezzo della lunga serie estiva di Test Match contro i boeri, criticando la condotta del suo capitano, Andrew Strauss – il cognome di quest’ultimo non inganna, anche lui è naturalizzato. I maligni raccontano che quella sudafricana fosse stata una trappola ben congeniata per attirare Pietersen, provocandolo al fine di vederlo rispondere con provocazioni.
Storie di mazze e cospirazioni, da tutti gli angoli dell’impero che fu. Scrisse il drammaturgo Harold Pinter: “Il cricket è la cosa più bella che Dio abbia inventato sulla terra, certamente meglio anche del sesso, anche se il sesso non è poi così male”. Tipi strani, questi cricketers.